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"ROMA NON AMA PIÙ GLI ARTISTI COME ME " – LO SCULTORE NUNZIO DE STEFANO E IL SUO RAPPORTO DI AMORE E “CONFLITTO” CON LA CITTÀ ETERNA: “A SAN LORENZO HO ANCORA LO STUDIO DOVE NELL'84 ESPONEMMO “ATELIER”. ALLORA C'ERA GINO DE DOMINICIS CHE METTEVA A LETTO LA CITTÀ. C'ERA UN CERTO FERMENTO, TANTI ARTISTI E NUOVE GALLERIE. ADESSO PERÒ I GALLERISTI SONO SPARITI E…”

Lorenzo Madaro per “la Repubblica - Edizione Roma”

 

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«Grazie a Roma ho vissuto subito in mezzo all'arte, sin dai primi anni di vita. Ricordo che da bambino attraversavo il centro storico da Campo de' fiori a Piazza Navona, dove c'era una piccola biblioteca. Sfogliavo i libri su Michelangelo, fu una rivelazione, e un giorno andai a vedere da solo la Cappella Sistina. Un'esperienza indimenticabile».

 

Inizia così una conversazione con Nunzio Di Stefano - nel mondo dell'arte conosciuto semplicemente come Nunzio - , che a Roma ci è arrivato con i genitori dall'Abruzzo quando aveva due anni. La sua è una scultura, dalle forme totemiche, che interroga i confini degli spazi e il rapporto con la luce, anche grazie all'ausilio di diversi materiali: dal piombo al legno combusto. Oggi Nunzio vive prevalentemente a Torino, «una città che ama gli artisti», dice.

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Perché, Roma non vi ama?

«Non è questo, ma Roma è una città a vocazione turistica, mille sovrapposizioni, l'arte contemporanea rientra in un calderone e non è uno dei punti che la caratterizza».

 

Cos' è cambiato rispetto agli anni '80, quando lei ha esordito?

«Non ci sono più grandi gallerie di riferimento, i collezionisti attenti, a parte due o tre - come Stefano e Raffaella Sciarretta, Giovanni e Valeria Giuliani - , non si impegnano granché e la città non si spende più di tanto per l'arte contemporanea. Spero che il Macro possa riprendere energie grazie a Luca Lo Pinto, il nuovo direttore.

 

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I musei vanno sostenuti con maggiore impegno, penso anche al Maxxi e alla Galleria nazionale d'arte moderna, soprattutto dopo il Covid non sarà facile la ricostruzione. Bisogna che ognuno faccia la sua parte, anche i giornali, per sostenere questi processi. Ma Roma naturalmente rimane una città stupefacente, pensiamo ad esempio a certe passeggiate».

 

Ci proponga un itinerario.

«Pensiamo a uno dei luoghi più belli, la Galleria Borghese. Faccio sempre la passeggiata che porta dapprima da Raffaello alla Farnesina in via della Lungara. Si attraversa poi il ponte e si arriva a Piazza Navona, quindi si visita la chiesa di sant' Agostino con il dipinto del Caravaggio.

 

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Si prosegue con San Luigi dei Francesi, sempre per Caravaggio, e si arriva a piazza del Popolo e si sale su, si va al Pincio e si entra in Galleria Borghese. Ti ritrovi davanti al Bacchino malato del Merisi: anche a uno che non sa niente d'arte un'opera così gli cambia la visione del mondo. È una passeggiata che ho fatto tante volte con gli amici».

 

Nei primi anni Ottanta un gruppo di giovani artisti inizia ad abitare con i propri atelier il Pastificio Cerere. Come andò?

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«Nel 1973 presi uno studio a San Lorenzo, dal 1978 sono venuti tanti altri artisti, la maggior parte erano miei compagni di corso all'Accademia di via Ripetta. Eravamo tutti giovani speranzosi, pieni di fiducia nella cultura e nella vita. E tutti con un'idea molto precisa dell'arte».

 

È stato un vero gruppo?

«No, ognuno di noi aveva il suo modo di pensare, non c'era un manifesto. Avevamo però comuni ideali. Ci fu una mostra importante, "Atelier", nel 1984, a cura di Achille Bonito Oliva, reduce dai successi della Transavanguardia: aprimmo al pubblico i nostri studi e fu un successo. Cercavamo una nostra strada e ci sono stati anni molto belli, non molti: stavamo lì e ognuno collaborava e discuteva. Nei primi anni Ottanta, c'era un certo fermento a Roma, tanti artisti e nuove gallerie. Ho ancora uno studio al Pastificio, ma siamo rimasti in pochi di quella compagine. Soltanto io, Marco Tirelli e Piero Pizzi Cannella».

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Il 1984 è anche l'anno di una delle sue prime mostre importanti, la personale a L'Attico di Fabio Sargentini.

«Abitavo di fronte alla galleria di via del Paradiso e, da sempre, osservavo gli artisti dalla mia finestra. Nel 1984 Fabio, che era ormai consacrato nella storia, mi invitò a esporre. Una volta in galleria, rimasi un'ora alla finestra per guardare verso casa mia. Fabio mi chiese "Ma cosa guardi?". Risposi che era da tutta la vita che guardavo dal lato opposto».

 

A Roma c'erano tutti: da Mario Schifano a Gino De Dominicis, da Jannis Kounellis a Giacinto Cerone.

«Con molti ci si vedeva in giro in locali come il Privè e l'Hemingway. Artisti come Kounellis e Luigi Ontani hanno vissuto Roma in un modo incredibile. De Dominicis lo vedevi sempre alle tre del mattino, metteva a letto la città e andava a dormire. C'erano anche tanti galleristi, Ugo Ferranti, per esempio, e Gian Enzo Sperone, che faceva mostre importanti».

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In Accademia è stato allievo di Scialoja, maestro di tanti grandi maestri.

«Per me è stato una specie di padre, aveva un magnifico studio a Piazza Mattei. Con lui e sua moglie, la critica d'arte e traduttrice Gabriella Drudi, ho apprezzato la poesia e ho conosciuto persone incredibili, da Italo Calvino all'artista americano Robert Motherwell. Anche il critico Alberto Boatto è stato nostro professore, straordinario. Diceva sempre che viveva sullo stesso "pianerottolo culturale" di Scialoja».

 

Gli Scialoja avevano un rapporto speciale con l'America. E lei?

«Ho trascorso un anno negli Usa, al mio rientro dissi a entrambi che ormai l'America che avevano frequentato loro, quella dell'Action painting, non c'era più. Ormai era il turno di Basquiat e di altri artisti».

 

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E tra i compagni di strada c'è stato anche Giuliano Briganti, altro critico che si è occupato del suo lavoro.

«Un amico. Non dimenticherò mai una visita a Palazzo Farnese, con lui che mi raccontava le storie affrescate dai Carracci, un altro patrimonio dell'umanità che si trova a Roma».

 

Anche lei è stato un maestro. Nel suo studio ha esordito, ad esempio, Micol Assaël.

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«Mi piace molto confrontarmi con i giovani artisti, mi interessa tanto il loro modo di riflettere, di agire. Ho avuto tantissimo dai miei allievi, oltre a Micol, penso a Carmine Tornincasa, Betta Benassi, Adrian Tranquilli, Diego Valentino, Callixto Ramirez».

 

Lei è nato in un paese abruzzese. Com' è andata l'infanzia a Roma?

«Durante l'estate i miei genitori mi mandavano dai nonni, vita agreste e contadina. Lì mi chiamavano "Il romanino", mentre a Roma ero comunque uno straniero. Era una specie di lotta, ero sempre fuori posto, e tale sono rimasto tutta la vita.

 

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Ho frequentato la scuola d'arte di Tiburtino terzo, dove insegnavano la storica dell'arte Marisa Volpi e gli scultori Carlo Lorenzetti e Giuseppe Uncini. Una volta tornai a casa con tutti 10 in pagella, papà pensò che l'avessi falsificata e la stracciò senza pensarci due volte».

 

Quali i luoghi più amati ogni volta che ritorna a Roma?

«I luoghi meravigliosi lì sono ovunque, basti andare a Santa Sabina, a Roma ci sono le chiese più belle del mondo. Poi il Gianicolo, a nove anni con un amico scappai di casa e mi rifugiai lì. E poi sono affezionato a Valle Aurelia, c'era una società dove andavo a giocare a calcio da ragazzo».

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Non le manca tutto questo?

«Roma è una città incredibile, ma dispersiva. Nella mia vita mantengo sempre il terreno, non mollo mai niente».

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