IO MARCIO - SCHWAZER CI RIPROVA CON DONATI: “HO SCELTO IL TECNICO CHE PIÙ HA COMBATTUTO IL DOPING IN ITALIA. IN TANTI DUBITANO, LO SO. ANCH’IO QUANDO RIENTRAVANO I DOPATI ERO POLEMICO”

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Emanuela Audisio per “la Repubblica”

 

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Alex torna. On the road again. Era il reietto. Bruciato dentro e bruciato fuori. Per tre anni è stato senza sport. Ha provato e riprovato a fare altro. Lontano da quel troppo che non gli aveva fatto sentire più niente. Voleva e doveva disintossicarsi: dal doping, dalla colpa, dalla cultura del successo.

 

Oggi annuncerà che Schwazer non è più solo.

«Si. Il tecnico Sandro Donati ha accettato di allenarmi. Tutti i miei test ematici saranno visibili. Non sono più il pazzo che lavora da solo pieno di vendetta e desideroso di far vedere le sue qualità, ma un atleta con un programma, con un coach, e con una precisa metodologia.

 

Lo so: in tanti dubiteranno. Anch’io quando ero pulito e rientravano i dopati ero polemico e per niente contento. Ma la mia storia ricomincia e non in maniera facile. Ho scelto il tecnico che più ha studiato il doping e più l’ha combattuto in Italia. Potevo non farlo. Vorrei invece dare a tutti garanzie della mia serietà e del mio impegno».

 

Donati lavora a Roma.

dolore e rammarico per il suo errore alex schwazer ha al suo fianco il conforto della fidanzata carolina kostner e la famiglia e dolore e rammarico per il suo errore alex schwazer ha al suo fianco il conforto della fidanzata carolina kostner e la famiglia e

«E io mi trasferirò a Roma in modo che lui mi possa seguire. Sarò fisicamente vicino ai laboratori antidoping. Per accettare la mia proposta Donati ha voluto sapere meglio del mio passato. Ci siamo parlati, ho chiarito molto. È una bella sfida per entrambi».

 

Com’è andata la sua seconda vita?

«Con apatia. La quotidianità senza esercizio fisico mi è ostica. Ho 31 anni. Premetto che io ho fatto sempre sport: hockey, atletica, ciclismo. La scuola non mi interessava. Ci andavo in tuta. Non c’era materia che mi appassionasse, non ci tenevo ad essere un campione lì. A differenza di mio fratello, grande specialista di latino e greco. E quando ho preso il diploma nell’istituto dove mia madre era bidella ho giurato: mai più in un’aula».

 

Invece è tornato sui banchi.

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«Sì. Dopo Londra 2012. Ero cotto, non carburavo più. Il solo pensiero di allenarmi mi disgustava, non ne sentivo il bisogno. Riuscivo a rilassarmi solo a tavola. Il resto ero un disastro. Così mi sono iscritto all’università di Innsbruck, corso triennale di management e turismo, a 70 km dal mio paese, Calice. Ma senza fare vita di campus».

 

Con buoni risultati?

«Ho dato 9 esami, ma me ne sono andato. In un primo momento è stato bello: nuovo mondo, nuovo ambiente. Uno studente in mezzo agli altri. Anonimo. Poi è stato scioccante: non ci capivo niente, anche perché gli unici strumenti di conoscenza sono le mie gambe. Marci per vent’anni, alla fine conosci bene solo la strada. Lontana da quella sei un marziano. Mi mancavano le mie soddisfazioni fisiche: la sofferenza, il recupero. Sono un animale da sport».

 

Così si è trasferito.

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«A Salisburgo, corso di scienze motorie. Molto meglio. Ho dato sei esami. Ho diviso l’appartamento con mio fratello. Alla prima lezione il professore apre con una panoramica sul doping: nella prima foto c’è Lance Armstrong, nella seconda io. L’anonimato era finito. Ma non sono Mennea che nello studio è riuscito a trovare un’alternativa. Né mi sono fatto amici all’università. Mi preparo da solo, non ho socializzato molto».

ALEX SCHWAZER ALEX SCHWAZER

 

Ha fatto anche il barista.

«Sì. D’estate. Per mantenermi. In un bar di periferia. A 400 euro al mese. Non mi pesava, non lo trovavo vergognoso. Anzi mi è piaciuto. Non capisco l’ironia: un campione olimpico che serve ai tavolini. E allora: che male c’è?» Magari da Schwazer uno si aspettava altro.

«Sono proprio le aspettative che mi hanno ucciso. Lo capisco ora. Dopo aver vinto a Pechino nel 2008 dovevo ubriacarmi, divertirmi, lasciarmi andare, perdermi con allegria. Godere in maniera stupida, superficiale, felice».

 

Invece?

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«Invece tutti a dirmi: non ti rilassare proprio adesso, tieni duro, non smettere di allenarti. E io a dare retta, a consegnarmi prigioniero a Saluzzo, invece di fare baldoria. Se vinci un’Olimpiade a 24 anni avresti diritto all’incoscienza, non di ripetere subito il miracolo».

 

Però lei è malato di depressione.

«Sì, l’ho capito. Chi cura me ha curato anche mio nonno. Mi hanno mostrato la sua cartella clinica. Ma io ho cercato di chiedere aiuto, non sono stato in silenzio, ho dato segni di squilibrio, solo che tutti hanno fatto finta di niente. Serviva Schwazer marciatore, non l’uomo ».

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Ora riesce a godersi le cose?

«Un po’. Sono stato una settimana a Cipro in vacanza. Mi è piaciuto. E anche a Maiorca, nelle Baleari. Però se mi chiedono quale colore mi piace di più, quale film, quale libro, in quale città del mondo vorrei vivere, rispondo non so. Avrei dovuto guardare e imparare da Carolina, lei sì è riuscita a pattinare e ad allenarsi con leggerezza. E lo ha fatto dopo lo schianto di Vancouver. Da Kostner perdente, quindi è stata ancora più brava».

 

Poteva imitarla.

«Ora so farlo. Vado, corro, marcio, mi alleno senza nemmeno controllare il tempo. Non m’interessa più tanto il risultato. Voglio fare sport, avere emozioni durante il tragitto e non per la classifica all’arrivo. Anzi, al polso non porto niente. Basta cronometri e orologi. Mi godo il paesaggio e la fatica. Finalmente una marcia libera».

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