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Emanuela Audisio per la Repubblica
Diceva che Ali aveva un fisico bellissimo. «Venissero i marziani a chiedermi un esemplare umano direi: prendete lui, è perfetto ».
Ma diceva anche (nel '77) che quel fisico era deteriorato e che era un crimine farlo continuare a combattere. Lo aveva anche scritto in una lettera, ma nessuno gli aveva risposto. E allora lui aveva detto basta, se n' era andato dall' angolo. È morto a 89 anni "The Fight Doctor", chiamavano così Ferdie Pacheco, il medico di Muhammad Ali.
Era stato al suo angolo sin dagli inizi, da quando l' uomo nel '62 si chiamava Cassius Clay. E con lui se ne va l' ultimo pezzo della mitica 5th Street Gym di Miami.
Non è rimasto più nessuno di quella Santa Trinità da ring mondiale: l' allenatore (Angelo Dundee), il pugile (Muhammad Ali), il dottore (Pacheco). Ferdie, di origini spagnole, era arrivato in Florida da Cuba e subito dopo la laurea in farmacia aveva aperto un ambulatorio a Little Havana (Miami) e aveva iniziato a seguire i pugili di Dundee. Non tutti potevano pagare, ma lui non ci faceva caso.
Alto, con gli occhiali, assomigliava a Walter Matthau e quando Ali cominciò ad essere seguito dai musulmani neri, andò in rotta di collisione con il gruppo che consigliava al pugile come dieta un bel gelato di pesca e di vaniglia prima di salire sul ring («Piuttosto lo mangio io, ma impedirò questa cretinata»).
Nella boxe era il cornerman più famoso, non aveva solo la scienza, ma anche gli occhi, era stato lui ad avvisare Ali nel '75 a Manila: «Frazier ti vuole morto » ed era stato sempre lui a capire che al decimo round il suo pugile era in crisi: «Il mento gli cadeva sul petto, gli occhi erano rovesciati all' indietro, faticava a respirare, gli tenni una borsa di ghiaccio sulla testa, lo feci bere, e sperai ».
Sperò bene. Perché Ali, rotto, stremato, distrutto, riuscì a restare in piedi e a vincere.
Dopo quel match sottopose Ali, che aveva pisciato sangue per tre giorni, a esami medici e comprese che quel corpo non poteva più salire sul ring. Reni e cervello erano compromessi.
Non si parlava ancora di Parkinson, ma Ali non riusciva a camminare dritto né a toccarsi la punta del naso con il dito e dava segni di deterioramento. Pacheco gli voleva troppo bene, così visto che tutti facevano finta di niente e lui ci teneva alla morale, lasciò il clan che voleva continuare a sfruttare quella ricchezza.
Continuò a essere amico di Ali, non criticò, espresse la sua posizione, ma non voleva fare parte degli avvoltoi che speculavano su un quasi cadavere. «Sono un dottore, non voglio mandare nessuno a morire». Si mise a fare il telecronista di boxe, anzi lo specialista, e vinse due premi importanti. Scrisse libri, cercò di tutelare la salute dei pugili.
E si mise a dipingere. I suoi quadri sembravano ko. Colori accessi, nulla di minimal, fiori enormi. A fianco del più grande aveva imparato anche lui a esserlo. Diceva che Ali era straordinario e che non meritava di finire annientato dal Parkinson.
«Non è stato giusto. Ha pagato caro tutto e troppo. Non doveva toccare a lui, mi dispiace ». Fight Doctor era così, sentiva i dolori della carne: ti curava e ti proteggeva le mani perché tu picchiassi meglio, poi ti diceva, caro, torna a casa non è più tempo. E se nessuno lo ascoltava a casa ci andava lui. Era sincero. Come il ring.
MUHAMMAD ALI MUHAMMAD ALI MUHAMMAD ALI
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