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Giancarlo Dotto per Dagospia
La gente romanista galleggia di questi tempi in un mare di anestetico, nella leggerezza stordita tra sbornia e sogno, sospesa tra un romanzo di Calderon de la Barca e una delle più belle canzoni del “Banco del Mutuo Soccorso”. “Non mi svegliate ve ne prego/ma lasciate che io dorma questo sonno /sia tranquillo da bambino/sia che puzzi del russare ubriaco/Perché volete disturbarmi/se io forse sto sognando un viaggio alato/sopra un carro senza ruote/trascinato dai cavalli del maestrale...”.
Al centro di questo sogno c’è lui, il pentasillabe dal culo basso e due piedi che cantano. Biondo, per giunta. Come il Tevere. Francesco Totti. Era timido, ma così timido, che arrossiva solo se lo guardavi. Quando, sedicenne, lo presentavano come “un predestinato”. Boskov si accorse di lui, Mazzone lo svezzò, Zeman ne fece un calciatore dionisiaco, Capello gli ha dato il titolo, Spalletti l’inventò come l’uomo che farà l’impresa. Rudi Garcia l’ha convinto che non sarà l’ultima.
Quel rossore, nel frattempo, è diventato disincanto, ma non smette di collezionare incanti. Quel sedicenne non immaginava di diventare una leggenda. Ora che lo è diventato non sa di esserlo. E’ la sua fortuna. Il suo segreto. Per saperlo, deve specchiarsi ogni giorno nella devozione della sua gente.
Pur di non rinunciare a questo specchio, si è detto romanista a vita. Si è dato il giallorosso come seconda pelle e camicia di forza. Folle a suo modo. Un suicidio calcistico, forse, per i cervelli anali che misurano la vita in trofei, una scelta illuminata se hai preferito garantirti una serenata a vita sotto i balconi di Trigoria.
Sapere che anche lui un giorno passerà come passa ogni cosa è un tale strazio che il tifoso romanista è da anni in gramaglie alla sola idea. Nostalgici prima ancora di averlo perduto, mancanti in sua presenza. Incapaci di godere sino in fondo delle meraviglie che ancora ci dispensa perché si avvicina il giorno in cui tutto questo finirà.
Si chiama lutto preventivo. Francesco questo l’ha capito. Lo sa misurare, lui per primo, il vuoto che lascerà. E’ per questo che insiste, prima ancora di ogni record e di ogni titolo, oltre ogni logica, oltre ogni limite. Non può smettere perché l’ha avvertito in cuor suo che nessuno a Roma è pronto a che lui smetta.
La disavventura della gente romanista sarà perdere le sue imprese. La sua? Non esserne stato spettatore.
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