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DAGOREPORT - DA IERI SERA, CON LA VITTORIA IN GERMANIA DELL’ANTI-TRUMPIANO MERZ E IL CONTENIMENTO…
VEDERE OLTRE - IN UNA SOCIETÀ DOMINATA DALL'IMMAGINE, IL VEDERE È DIVENTATA UN'IMPRESA DAVVERO DIFFICILE. SI GUARDA, SENZA PERCEPIRE: IL NOSTRO OCCHIO OSSERVA, MA NON VEDE – UN NUOVO STRAORDINARIO SAGGIO DI FRANCESCA ALFANO MIGLIETTI SULL’ENERGIA DELL’ARTE DI FAR VEDERE QUELLO CHE NON C’È, MA CHE SI SENTE, SI PERCEPISCE, COINVOLGE, INQUIETA, ATTRAE
Milano, giovedì 24 gennaio, ore 18,30 presentazione libro di FAM – ‘’A perdita d'occhio’’ - Feltrinelli Piazza Piemonte – Con l’autrice interverranno Gianni Canova, Romeo Gigli, Marco Pesatori
Piccolo Prologo
"In arte, in pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, ma di captare delle forze. Per questa ragione nessuna arte è figurativa.
La celebre formula di Klee "non rendere il visibile,
ma rendere visibile" non significa nient'altro".
Gilles Deleuze
Allo stesso modo di una nuova umanità, quello che si propone è uno sguardo, un vedere, un percepire in gran parte clandestino, migrante e ribelle. A questo tipo di sguardo e alla sua direzione non uniforme vengono dedicati una raccolta di saggi, utilizzando lo sguardo come disciplina politica e poetica. L'opera si fa così colloquio e narrazione, si rivendicano discorsi, si progettano utopie, si narrano delle storie. Per sintetizzare: è in discussione un modo di vedere, il modo in cui vediamo, è solo uno tra i possibili modi di vedere, e questo è uno dei modi in cui può essere rivoltato. Si vuole sperimentare un ulteriore modo di vedere, forse una forma di cecità, ma una cecità aperta, pluriforme e 'meticcia' .
Francesca Alfano Miglietti photo-Maria-Mulas
Introduzione - Per un vedere l’invisibile
“ Lentamente muore chi diventa schiavo
dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore
dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.”
Martha Medeiros
Un modo di vedere, un vedere doppio...
Un primo appunto, un piccolo stralcio, un frammento di visione...
Il ‘racconto’ è nelle pieghe, e si snoda lungo le storie di soggetti e di opere, fuori da una catalogazione che sceglie il rigore all’esistere.
Una serie di appunti sulle questioni sollevate dal problema della “visione”, attraverso le opere di un piccolissimo nucleo di artisti contemporanei, un piccolo saggio che diviene un’indagine linguistica e che rimane imprescindibile da quella visiva, infatti il tema costante del saggio è quello relativo allo “sguardo”, al “guardare”. Parole e opere che interagiscono spingendo il lettore a farsi obbligatoriamente anche “osservatore”.
Spesso, apparentemente, quello che accomuna questi autori o queste opere è un pretesto, uno strumento, un segnale. In realtà li accomuna una potente onnipotenza: far vedere quello che non c’è, far vedere un presagio, una memoria, un amore, un tempo, un disagio, tutte ‘cose’ che non si vedono, ma che si sentono, si percepiscono, coinvolgono, inquietano, attraggono.
GINO DE DOMINICIS IL GUERRIERO
A prescindere da qualsiasi dottrina filosofica, il fatto che percepiamo il mondo e interagiamo con esso tramite i nostri sensi, è assodato. Fin dalla nascita i sensi sono il nostro unico strumento di ricerca e d'interpretazione.
E’ stato Aristotele a classificare le percezioni del corpo in cinque grandi sfere sensoriali ognuna collocata in un organo ben preciso: il tatto nella pelle, il gusto nella bocca, l'olfatto nel naso, l'udito nell'orecchio e per ultimo il senso che sfruttiamo di più per rapportarci con l'esterno, la vista che risiede nell'occhio.
"Io vedo" deriva direttamente dal verbo greco ο?δα (oida), traducibile come "io so", il cui tema del participio è "id-". Da quest'ultima coniugazione di "oida" si sono formati molti termini delle lingue moderne tra cui la parola italiana "idea", e la parola inglese "wit", che significa intelligenza. La vista è il senso su cui facciamo maggior affidamento: non crediamo se non vediamo! Tutto ciò che è materiale, concreto e ha contatti con la realtà è facile da visualizzare. Basta aprire gli occhi.
in|vi|sì|bi|le: agg., s.m., s.f. che sfugge alla percezione dei sensi perché escluso da qualsiasi configurazione materiale
I nostri cinque sensi sono dunque limitati.
Aprire gli occhi solamente, tastare, assaggiare, annusare o aguzzare l'orecchio non sono azioni sufficienti per "scoprire" l'invisibile. Prima bisogna ideare un mondo in grado di fornire una consistenza materiale al non-conoscibile, un espediente per renderlo familiare associandolo a qualcosa di facile comprensione ed effettuare così un vero e proprio transfert gnoseologico.
Una “problematica degli sguardi”, in un altrove rispetto al ruolo che il vedere e le immagini possiedono nella contemporaneità.
Dunque un vedere, quello proposto, a partire dalla complessità della mescolanza, dalla capacità di spostare cultura e destino verso i luoghi dove mettere in discussione qualsiasi forma di purezza: opere creole, meticce, clandestine e ribelli. Una visione della sottrazione: una scommessa o una provocazione, nonostante la generale consapevolezza dell'incompatibilità di una crescita infinita, la fuoriuscita da una visione che confonde l'apparenza e l'essenza delle cose.
E’ necessario un mutamento d'immaginario per uscire dalla dittatura dell’immagine.
La linea principale della cultura e dell’arte occidentale è radicata in un atteggiamento che illumina, mette in ordine, mette in prospettiva, disciplina, specifica, specializza, organizza, funzionalizza, razionalizza…
E’ possibile un altro modo? Un modo di vedere attraverso uno sguardo meticcio, un guardare oltre quella che gli psicoanalisti chiamano la “linea di confine” (borderline) della normalità? La civiltà occidentale, in quanto civiltà della “teoria”, (il termine teoria dal greco θεωρ?ω theoréo "guardo, osservo") ha privilegiato la vista e l’udito, ma ha trascurato, diversamente dalle civiltà orientali, l’olfatto, il gusto e il tatto.
Proust sosteneva che, in un certo modo, “sotto viviamo”, perché sottoutilizziamo i nostri sensi, che assommandosi, integrandosi, fondendosi, costituiscono una specie di miscelatore con cui si costruisce, in qualche modo, la realtà: una maniera diretta che permette di sperimentare un mondo. Un sapere capace di divenire un punto di vista mobile, una collezione di storie, di luoghi, di andamenti. Una alterazione che cambia lo sguardo e fonda nuove modalità di relazione e di contatto.
La questione delle immagini e degli sguardi diventa perciò una vera e propria questione poetica. Ma forse anche politica…
Quello che si vuole sperimentare è uno sguardo come metafora, un territorio impossibile da delimitare e racchiudere in una mappa, l’opera come costituzione di un luogo di aperture e fratture in cui si riversano nuovi racconti, e che mette in discussione le nozioni di identità, appartenenza, autenticità, rinunciando a nominare e addomesticare il mondo da una prospettiva univoca.
Veri e propri itinerari silenziosi, un avvicinamento alla oeuvre d'être, ‘opera d’essere’ di cui parla Hélène Cixous: l’opera d’arte è un’opera di seduzione, destinata ad offrirsi alla vista per glorificare l’autore, l’opera d’essere è una radicale deposizione del sé. “(…) opere che possono essere magnifiche, opere che sono veramente destinate (…), a cercare i nostri occhi, non abbandonarli mai, catturarli (…).” (Hélène Cixous, L’ultimo quadro o il ritratto di Dio (1983).
Attraverso la diffusione dell’immagine si è raggiunto un risultato destabilizzante dove i confini tra reale ed illusione vengono fortemente confusi per mezzo del crescente potere del valore delle apparenze. L’apparenza si mescola e sostituisce le cose in se per permettere, all’osservatore, di vivere una pseudo esperienza ottenuta per mezzo dall’immedesimazione, una sovra struttura illusionistica che, attraverso l’immagine, ricopre il reale con un velo magico e sognante dove le cose restano circoscritte in un ambito protetto ed innocuo che è quello della spettacolarità e dove lo spettatore, in tutto questo, vive un ruolo marginale e passivo.
Quello che si delinea è il paesaggio di una mutazione con una profondità dissimulata in leggerezza.??Nietzsche ha descritto con precisione l'avvento di questo nuovo uomo e della sua società nichilista, in cui tutto è interscambiabile con qualsiasi altra cosa, come la cartamoneta. Si cerca di descrivere e soprattutto di capire il mondo. Questo implica un giudizio. Capire la mutazione, accettarla, è l'unico modo di conservare una possibilità di giudizio, di scelta. E’ come immergersi e reimmergersi in un testo, in un amore, in un'amicizia.
La forza dell’arte si trova nel gioco in maniera antagonistica rispetto a quella della spettacolarizzazione: lo spettacolo fa vedere ostentatamente, l’arte nasconde, e nascondendo non svela, nascondendo l’arte rivela quello che è stato nascosto dallo spettacolo. Lo spettacolo eleva il normale a sovrannaturale, lo spettacolo crea distanza tra l’uomo e l’esperienza, lo spettacolo crea potere attraverso l’immagine, lo spettacolo decreta la validità assoluta della strada maestra.
Dire che l’arte in generale faccia tutto il contrario non è esatto: l’arte funziona in termini di contrasto antagonistico solo quando crea un’improbabilità concreta, basata sulla realtà e non sulla finzione.
Una scelta di opere, dunque, opere non immobili ed eterne, ma che, come tutte le cose del mondo, sono soggette all’azione trasformante del tempo e dello spazio, soggette alla ricatalogazione della mente e dell’esperienza: opere come un sasso lanciato nell’acqua con un gesto quasi indifferente, ma guardare solo l’impatto iniziale sarebbe oltremodo limitante, è importante considerare la traiettoria, il contatto, le increspature prodotte sulla superficie dell’acqua, ma anche, e forse ancora più importante, l’affondamento del sasso nelle profondità dell’acqua, il suo deporsi sul fondo del mare, assistendo pazientemente alla continua trasformazione della pietra lanciata e ormai apparentemente inerte, da una parte, e quella vissuta invece dal lanciatore impegnato in altre azioni.
Vista in questi termini l’opera diventa cosa viva, opere che non creano illusione: creano visione. Opere in cui giocano molto i sentimenti, le visioni del mondo, i paesaggi delle proprie emozioni, e anche altro: l’idea che l’arte è soltanto passaggio, talento, passione e sapienza, e una clandestina esperienza.
Forse, solo, ’invenzione’ di un confine. Una messa in opera dello sguardo, quello che appare alla vista può essere una cosa o un’altra, dipende da come la si guarda, la liberazione dei punti di vista mette in dubbio la realtà mostrandola per quello che è veramente: il risultato di atteggiamenti generati da un segnale casuale arbitrario più o meno condiviso. Una macchinazione che offre l’intuizione di uno spazio invisibile.
L'attenzione pare si posi solo sulle cose che capitano sotto gli occhi nella vita quotidiana, scrutate nei minimi dettagli con un ossessivo scrupolo di precisione.
Opere come progetti di amicizia, di avvicinamenti, il tentativo di trovare un modo di essere a ciò che è misterioso anche se conosciuto da tutti, il bisogno di creare un passato al di sopra delle conoscenze ma non delle esperienze. Il tentativo di dare una forma all’invisibile.
Opere che non rappresentano ma sperimentano, che affermano la vocazione del "divenire invisibile", e che rifuggono dall'inutile apologia della trasgressione. Opere che agiscono una grandiosa e paradossale invisibilità. Una collezione di opere complesse ed estremamente articolate, sempre diverse, ma sempre incomplete.
Il fatto che si decida di credere soltanto a ciò che possiamo vedere, è una questione strettamente personale, una scoperta sensazionale, un vero e proprio contesto: un punto, e ne esiste più di uno, che contiene ogni cosa. Non si tratta del riassunto delle cose, ma di ogni cosa nella sua completezza, la coesistenza di un tutto accuratamente sovrapposto e trasparente, così da poter vedere distintamente ogni elemento come entità autonoma.
Opere che sembrano contenere anche noi stessi, quello che è stato, ogni luogo e anche il testo che abbiamo letto, l’intera Biblioteca di Babele e gli specchi e le caramelle, e ogni cosa immaginata fino ad ora. Opere “difficili”, perché non si sono tenute al riparo dai tempi, ma che si sono lasciate mutare, perché ridiventassero altro in un tempo nuovo. Opere come versi minuziosi. Opere che sembrano contenere tutti i nostri passati, distinti ed innumerevoli. E forse è questo quello che si chiama ‘vedere’.
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