DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
La Sueddeutsche dedica ampio spazio al Long Covid negli atleti prendendo come spunto diverse testimonianze di atleti giovani, nei quali la malattia ha lasciato strascichi pesanti: perdita di memoria, problemi cardiaci, collasso.
Maximilian Jaeger, ad esempio, giocatore di pallamano 24enne nell’HC Erlangen, con nessuna patologia pregressa, racconta che, in estate, non riusciva a fare la spesa, né a leggere poche frasi di un libro. Non riusciva a concentrarsi quando chiacchierava con qualcuno né a guidare la macchina.
«Era come se avessi un batuffolo di cotone in testa. Come se fossi pazzo. Correvo in giro come una mummia».
Aveva contratto il Covid a marzo, insieme a molti altri giocatori della sua squadra, durante una trasferta internazionale. In forma lieve: un leggero mal di testa e un po’ di raffreddore. Eppure, come i suoi compagni, è stato in grado di giocare di nuovo solo alla fine di aprile. Poi, il tracollo. Problemi di circolazione, disturbi di linguaggio, percezioni alterate.
In estate, vedendo in tv Christian Eriksen accasciarsi a terra durante gli Europei, si chiese: «Cosa ci faccio qui? Sto giocando con la mia vita?». Così decise di fermarsi e di sottoporsi a dei controlli. Due settimane dopo, un neurologo gli aveva diagnosticato la sindrome del “Long Covid”. Nessun farmaco o prognosi. Solo un consiglio, da parte dei medici: fermati.
Jaeger racconta che nella sua squadra si sono vaccinati tutti: «perché tutti hanno visto come stavo. La vaccinazione avrebbe potuto aiutare molto anche me. Nessuno può immaginare cosa voglia dire se non l’ha vissuto personalmente. Mi svegliavo la mattina e aspettavo che passasse la giornata».
È riuscito a disputare di nuovo una partita intera solo a novembre, sei mesi dopo il contagio. Jaeger non è il solo ad aver sofferto per il Long Covid. È capitato anche al portiere dell’Hertha, Rune Jarstein. Il virus, contratto durante un viaggio internazionale, lo ha costretto al ricovero in ospedale. I medici gli diagnosticarono un’infiammazione del miocardio: è rimasto fermo quasi sei mesi.
E ancora, Jonathan Schmid, difensore e centrocampista del Friburgo, è stato contagiato a fine agosto e non ha più potuto giocare con la sua squadra fino a metà dicembre.
Nell’hockey su ghiaccio, si utilizza un particolare protocollo per tornare a giocare dopo il Covid. Prevede un diario dei sintomi e la misurazione giornaliera della frequenza cardiaca a riposo dei giocatori. I medici mettono in guardia contro il ritorno troppo anticipato allo sport agonistico per evitare conseguenze a lungo termine.
Tim Kleindienst, della squadra di calcio di seconda divisione FC Heidenheim, racconta di aver contratto il Covid nel novembre 2020 ma di aver detto ai suoi dirigenti (all’epoca giocava con il club belga KAA Gent) che non voleva tornare subito in campo.
«Ho detto ai responsabili senza mezzi termini che non mi sarei sacrificato. La mia salute era più importante per me, ecco perché l’ho fatto. Non voglio essere così rientrare in fretta».
E’ stato lontano per due mesi. Lamentava stanchezza, diarrea, perdita del gusto e forte mal di testa. «Potevo solo guardare dritto davanti a me e non alzare gli occhi al cielo. Quando salivo le scale, ero già esausto».
Kleindienst è rimasto settimane a letto per tutto il giorno, ha perso quattro chili. Oggi è tornato al 100% ed afferma: «A causa del decorso lieve, molti sottovalutano la malattia, ma se il Covid ti riduce come me, la penserai diversamente. Posso solo consigliare a tutti di fare una vaccinazione, solo perché impedisce ai corsi più duri di andare da me».
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