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Luca Bottura per “la Stampa”
Non si esce vivi dagli anni Ottanta, cantavano gli Afterhours.
Ma solo perché sottostimavano Silvio Berlusconi.
Che non solo quella decade ha originato, altroché edonismo reaganiano, ma è pure riuscito a farne un format di successo.
Acquistato dai Sarkozy, dai Trump, dai Boris Johnson. Che però a un certo punto hanno ceduto, sono scivolati sulla strada dell'opportunità, del rapporto causa-effetto, delle promesse tradite, delle fondamenta di cartapesta, dell'opinione pubblica ostile. Che lui, invece, ha continuato a sedurre. Sospeso tra palco e realtà, nel suo mondo a colori in cui salire al Quirinale o in Serie A hanno la stessa valenza: un monumento in vita, naturalmente equestre, e la prosecuzione di un'epopea infinita. Proprio come i processi cui giammai si presentò.
La parabola del Monza calcio ha qualcosa di surreale e bellissimo. Somiglia alla sontuosa serie di Domenico Procacci sul team azzurro che nel '76 vinse la Coppa Davis - "Una squadra" - laddove si incontrano il maestro di tennis di Mussolini, pariolini anonimi, accenti da Banda della Magliana, un'umanità estrema che tutto comprende e tutto giustifica: scazzi, talento, trionfi, rancori, auto-indulgenza, felicità a momenti. Una vita difficile, ma mica poi tanto. L'Italia di sempre. Le sue contraddizioni.
Il Dna di un popolo che pensa di vivere ne "Il Sorpasso" di Dino Risi ma è convinto che a 'sto giro il camion in senso opposto non ci sarà. A volte succede.
Berlusconi però è contemporaneo. Quel "tutto" è in diretta ma sempre uguale, proprio come le sue tv. Ci rassicura. Se non invecchia lui, almeno dentro, ché ormai fuori pare una Sagrada Familia semovente, anche noi rimaniamo sospesi.
Così, assistiamo a questo clone in minore del Milan con una specie di sorriso. Quasi lo tifiamo. Seguiamo ogni colpo di mercato come al luna park, come se fossimo ancora ai tempi in cui Canale 5 trasmetteva il Mundialito violando le leggi vigenti. Commentato da un cronista svizzero. Chiudiamo gli occhi, sentiamo lui e Adriano Galliani parlare dei traguardi biancorossi a venire, e siamo di nuovo in quegli anni. Anzi: Gli Anni.
Stessa strada, stesso posto, stesso bar. La canzone suona, ma la voce non è di Manuel Agnelli. È di Max Pezzali.
In più, c'è un elemento che il Berlusconi politico ha sempre frequentato pochissimo: la realtà. Quando si tratta di pallone, diventa un'Ambra Angiolini d'epoca: promette e mantiene.
E ci appartiene, gli apparteniamo. Dacché nel 2018 è passato nelle sue mani, mani grandi, mani senza fine, il Monza ha sfondato i 100 milioni di investimento. Non c'è giorno in cui i biancorossi non inseguano, e raggiungano, una grandeur che sembra parente di epoche ancora precedenti: quando i mulini erano bianchi e i presidenti dapprima ricchi e scemi, poi un po' meno ricchi. E basta.
Leggenda vuole che il Dorian Gray di Arcore fosse interista, in gioventù. Ed è vero che a vederlo così, col suo mecenatismo acrobatico, somiglia più ad Angelo Moratti che a un qualunque presidente rossonero.
Tolto forse Felicino Riva. Resta un dato: per la sua seconda passione invincibile, la Fifa, sta spendendo persino di più che per la prima. Perché insieme al pallone acquisisce ciò che ha sempre inseguito: non il potere, ma il consenso. Anzi: l'amore indiscriminato, quello che solo un tifoso può dare. Il Monza di Berlusconi e Galliani è parente della Edilnord, delle crociere in cui Confalonieri torturava Charles Trenet, di quell'epoca gioiosa e feroce, senza neanche un Dell'Utri che zompetta sinistro, a poca distanza ideale, sui campi della Bacigalupo. C'è il sole in tasca e la capacità di venderlo. Di affittarlo. Di farne manifesto politico anche al di là dello Stato di necessità. Maiuscolo.
Arriveranno, forse, anche, Dzeko o Icardi, dunque Wanda Nara, dunque il pastiche tra l'immaginario sportivo di Silvio e quell'altro. Intanto c'è Matteo Pessina che aveva davanti a sé qualunque squadrone europeo e invece s' è fatto convincere a fare il capitano a casa sua. Per soldi e per amore, appunto. E c'è, sottaciuta, la speranza di tornare a San Siro a sgambettare il Milan. A chiudere il cerchio disegnato sbolognandolo ai cinesi. Anche quello, col compasso. Berlusconi pensa di essere Berlusconi, e questa è la sua forza. Alla propria immanenza, ci crede eccome. Ma la vuole circondata dalla riconoscenza altrui. Per questo ha risarcito il fratello Paolo, che ne fu scudo umano durante Mani Pulite, issandolo alla presidenza del club.
E, a differenza che per il giornale di famiglia, senza neanche una legge che glielo imponesse. Per questo le maglie del Monza le produce chi fabbricò quelle del Milan invincibile, come a tracciare una sorta di continuum estetico con la Coppa dalle grandi orecchie. Anche lei. Per questo persino lo sponsor, annunciato ieri, viene diritto dai tempi in cui Mediaset si fece partito e diventò patrone ti monto: Motorola. Era, ai tempi, IL telefonino. Una conchiglia leggerissima, uno status symbol da ostentare, mentre noi mortali ancora esibivamo cellulari in ghisa. Una Milano da chiamare, diciamo. Poi arrivò Steve Jobs col suo touch screen e dei Motorola si persero le tracce.
Finché, poco tempo fa, se lo sono comprato i cinesi della Lenovo. Adesso pensateci: un oggetto in apparenza desueto, che abbelliamo con la nostalgia, assurto a nuova vita coi denari del capitalismo rosso. Più che uno sponsor, un'autobiografia. Il cui prossimo obiettivo sarà la parte sinistra della classifica. Ma solo per poterla accusare più da vicino di essere la solita comunista. Mentre noi continueremo a specchiarci in lui. Qualcuno entusiasta, qualcuno affranto. Tutti, inevitabilmente, italiani.
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