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TENNIS DOTTO - DJOKOVIC È LA MORTE INEVITABILE DEL TENNIS. QUANDO IL TENNIS NON NE PUÒ PIÙ DI ESSERE UMANO, ECCO SPUNTARE IL PROFILO GRIFAGNO DI NOLE - OGGI UN RIVALE CREDIBILE NON ESISTE: È DIVENTATO UNA BESTIA BIONICA AL LIMITE DELLA PERFEZIONE

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Giancarlo Dotto per Dagospia

 

Nole Djokovic è la morte inevitabile del tennis. A 28 anni può verosimilmente allungare di tre o quattro anni la sua ingiocabilità, mentre Roger si concede di diventare vecchio e Rafa di scoprirsi vulnerabile. Altrove, forse, chissà, talenti remoti. Ma il talento non basta. E non basta il genio, se di là della rete c’è lui. 

 

Se si gioca a due, uno straccio di rivale credibile è necessario. Oggi non esiste, quando gioca Nole. Anche stasera a Londra gli immaginifici al microfono si sono spesi per descriverlo. “Muro di gomma”. “Ragno diabolico”. “Demoralizzante marziano”.

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Banalissimo e inattualissimo spreco di lingua. La verità è più semplice da dire. Non serve svuotare il pozzo della metafora. La competizione estrema è oggi il laboratorio dove si affacciano sempre più spesso le avanguardie dell’inevitabile processo che è il superamento dell’umano. Ovvero, la più lirica, ma anche la più imperfetta delle transizioni evolutive. Quando il tennis non ne può più di essere umano, ecco spuntare il profilo grifagno di Nole Djokovic. La sua inesorabilità. Cesellata passo dopo passo.

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Il Nole ventenne era un talento importante combinato a una personalità strepitosa, ma ancora troppo umano, nelle dinamiche imperfette dello scheletro, nell’alimentazione e nelle tante allergie che lo svuotavano. Otto anni dopo è diventato una bestia bionica al limite della perfezione.

 

Vicino a lui anche l’”inumano” Rafa Nadal diventa una patetica, predestinata preda. Da invincibile cannibale a digeribile topo, questo è diventato Rafa a causa di Nole. Il serbo è  l’evoluzione biomeccanica dello spagnolo, già di suo una costruzione “scientifica” che trascende ciò che è trascendentale nel tennis, e cioè Roger Federer.

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L’esperienza artistica alias religiosa applicata al gesto della racchetta. Un meraviglioso anacronismo. Che si ostina nella labilità dello stupore, quando il mondo marcia nella voluttà della certezza. Roger resiste, contro ogni evidenza e anche contro il disgusto che lo assale (non è abbastanza “colto Roger”, per sua fortuna, per disgustarsi sino in fondo), ritarda “umanamente” a percepire l’inevitabilità epocale della sconfitta. Di cui Djokovic è solo un prototipo armato, cui seguiranno centinaia di replicanti. 

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Djokovic non è il superamento dell’umano solo nella perfezione dello scheletro in movimento, puro capolavoro biomeccanico, non una briciola di grasso superfluo, ossa, nervi e muscoli, visibilissimi sotto la pelle, ridotta al minimo, quanto basta per rivestire il motore. Ancora di più lo è, oltre, nell’azzeramento del paesaggio psichico. La vera débacle dell’umano. Dello stesso Federer. Di chiunque altro.

 

L’avete visto anche stasera, Nole. Incassato facile il primo set, 6 a 3, va sul 4 a 3 nel secondo e 0-40 al servizio Federer. Vittoria in tasca. Roger non ci sta, inventa qualche pezzo del suo circo da illusionista e si riprende il game contro ogni ragionevole e irragionevole speranza. Chiunque altro, al posto di Nole, sarebbe sceso in cantina anche solo per un minuto, il tempo di dirsi “non ci credo”.

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Chiunque altro, ma non lui. Non Nole. Semplicemente la sua faccia da sparviero si è fatta più spietata. Nole perde solo e quasi mai quando è irrilevante, vince quando è necessario. Stasera era necessario. Lo guardi e capisci che qualcuno, una divinità terribile, ha premuto il tasto che alza il livello dello scontro. Come certi robotici assemblaggi negli action movie di Hollywood, nell’occhio c’è solo un mirino elettronico e, nel mirino elettronico, la vittima di turno.

 

 

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