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Stefano Semeraro per “la Stampa”
Ha le treccine come Bob Marley, il suo idolo è Marat Safin. La sua pelle è nera, la sua superficie preferita l’erba, la sua vittima Rafael Nadal. Si chiama Dustin Brown, è mezzo tedesco e mezzo giamaicano e ieri per la seconda volta in due anni sul verde ha fatto fuori il Grande Decaduto.
La partita perfetta
Era già capitato l’anno scorso ad Halle, stavolta però è un risultato che smuove le radici del torneo, anche perché è arrivato sì al 2° turno, ma sul Centre Court, la sindone verde su cui Rafa ha giocato cinque finali e vinto (nel 2008 e 2010) due dei suoi 14 Slam. Il Nadal di quest’anno, intendiamoci, è lontano parente del Cannibale che fu. Ha vinto appena due tornei minori (Buenos Aires e Stoccarda) e negli Slam rimediato solo flop.
Nei Championships negli ultimi tre anni era al massimo agli ottavi, sui prati cercava un riscatto dopo il tonfo del Roland Garros invece ha continuato a rotolare, lento negli spostamenti, falloso. Un po’ triste, davanti al tennis-reggae di Brown, il n.102 del mondo partito dalle qualificazioni che lo ha punito con il servizio, ferito con le volée e stordito con le smorzate.
«Non avevo mai giocato sul Centre Court, e per Nadal ho un immenso rispetto», dice Dustin esibendo il suo eterno sorriso. «Averlo già battuto ad Halle mi ha dato fiducia, anche se all’inizio non sapevo neppure dove giocare le volée. Mi ero detto: se perdo, pazienza, stringerò la mano a Rafa e gli dirò bravo. Invece sono stato bravo a non mollare anche quando mi ha annullato i primi due match point, ho pensato solo a giocare il mio miglior tennis».
Nato in Germania
Brown ha 30 anni, è nato a Celle, in Germania. Mamma Inge è tedesca, papà Leroy è giamaicano. Ha iniziato a giocare a tennis a cinque anni, a dodici si è trasferito a Montego Bay, a casa di papà. Fra il 2004 e il 2007, agli inizi della carriera da pro, ha girato tornei per tutta Europa a bordo di un camper targato «CE DI 100» che gli aveva comprato mammà per risparmiare. Ce sta per Celle, DI per Dustin, 100 era l’obiettivo minimo da raggiungere in classifica, già superato nel 2012 quando a forza di vittorie nei Challenger (anche a Bergamo) si era parcheggiato a quota 43. «La mia metà tedesca mi ha regalato puntualità e organizzazione – dice – quella giamaicana la voglia di godermi la vita. Il tennis è allegria, come andare in spiaggia con gli amici, giocare alla playstation, ascoltare l’hip hop».
«Non giro più in camper»
Sul fianco ha un tatuaggio con l’immagine di papà Leroy, nel polso una frustata di servizio e tanta creatività, in testa un cesto di treccine rasta. «Il mio soprannome è Dreddy (da dread-lock), ma se dicono che sono il Bob Marley del tennis non mi offendo, ci mancherebbe. Il camper non ce l’ho più. Mi è servito per vincere tanto a livello future e challenger, non c’entrava tanto con l’immagine del tennista professionista, è vero, ma quello è stato un periodo in cui ho imparato molto».
Da tempo è oggetto di un piccolo culto underground per chi non ama il tennis omogeneizzato, ma non ha mai vinto un torneo in singolare (due in doppio), insomma gli mancava il grande acuto. Al terzo turno gli tocca il non impossibile serbo Victor Troicki, comunque lo affronterà in allegria. Se c’è uno streaming in paradiso, Arthur Ashe, il primo (e unico) nero a vincere Wimbledon giusto 40 anni fa, non si perderà il match.
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