Simona Siri per "La Stampa"
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Cento milioni di dollari per sviluppare e commercializzare contenuti creati da sezioni di popolazione storicamente emarginati. È il recente impegno che ha preso Spotify alla fine del suo mese horribilis, trenta giorni in cui è stata al centro di forti polemiche, ha visto le proprie azioni traballare e icone della musica come Neil Young e Joni Mitchell abbandonare la piattaforma.
Tutto inizia a fine dicembre 2021 quando 270 tra scienziati, medici, professori e comunicatori scientifici mandano una lettera aperta chiedendo che vengano prese misure contro «gli eventi di disinformazione di massa che continuano a verificarsi sulla piattaforma» in riferimento al Covid-19.
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L'oggetto della protesta è il podcast di Joe Rogan, eclettico personaggio dell'intrattenimento americano, comico, commentatore sportivo, attore ma soprattutto autore e protagonista del podcast The Joe Rogan Experience - 11 milioni di ascoltatori a episodio - che da pochi mesi si trova solo su Spotify.
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Nelle sue puntate ha più volte messo in dubbio l'efficacia dei vaccini, arrivando anche a ospitare un personaggio controverso come il dottor Robert Malone, già bannato da Twitter per aver paragonato la vaccinazione a una psicosi collettiva di massa.
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Alla lettera degli scienziati fa seguito la clamorosa decisione di Neil Young: per protesta contro Rogan e i suoi contenuti, il musicista chiede che la sua musica venga rimossa dalla piattaforma.
Spotify esegue, così come rimuove, sempre su richiesta, il catalogo di Joni Mitchell e quello di Nils Lofgren, chitarrista di Bruce Spingsteen, della musicista di colore India. Arie e della band Failure.
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Non un grande esodo, ma abbastanza per scatenare una crisi di immagine a cui fino a oggi la compagnia svedese ha reagito rilasciando comunicati su comunicati in cui difende la decisione di non privarsi di Rogan (pagato 100 milioni per l'esclusiva pluriennale) ma si impegna ad aggiungere, all'inizio di ogni episodio problematico, etichette di avviso e link a informazioni credibili relative al Covid-19 e a qualsiasi contenuto a esso correlato.
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Rogan si difende dicendo lui «per vivere dice cazzate. Sapendo questo - aggiunge - se ti fai consigliare da me sui vaccini, è veramente colpa mia?». Dopo neanche una settimana arriva però un'altra tegola: in rete inizia a circolare un video di Rogan che, in vari episodi del podcast, pronuncia la «N-word», la parola «negro» più e più volte.
Lui si scusa di nuovo e stavolta in tono molto più contrito (tanto da prendersi del «deboluccio» da Donald Trump): «L'ho fatto sempre in un contesto, ma poi qualcuno ha estrapolato quella parola e ci ha fatto un video su YouTube da cui sembra che sono un razzista come pochi. Anche a me».
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Rogan ha aggiunto di non aver usato la parola da anni. Il Ceo Daniel Ek parla attraverso un altro comunicato e si impegna a donare soldi alle minoranze, qualcuno grida alla cancel culture.
La frustrazione intanto cresce, il danno di immagine è evidente, e si fanno insistenti le voci che altri musicisti (Paul McCartney? Dave Grohl con i Foo Fighters?) potrebbero lasciare.
Anche Meghan e Harry - legati da un contratto si dice per 25 milioni - rendono nota la loro preoccupazione e in una nota ufficiale fanno sapere di aver esplicitato le loro riserve sui contenuti relativi al Covid- 19 già lo scorso aprile.
È solo la punta dell'iceberg: il vero nodo, che potrebbe portare alla vera rivolta dei musicisti riguarda ben altro che una guerra culturale, quanto «il modello coerente di sfruttamento, svalutazione e mancanza di rispetto dei creatori di musica da parte di Spotify».
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Le parole sono di Kay Hanley, leader della band di Letters to Cleo e co-fondatrice del gruppo di attivisti Songwriters of North America (SONA), ma come lei pensano in tanti, dal momento che Spotify corrisponde agli artisti 0,348 centesimi per ogni streaming, una cifra così bassa da aver portato, lo scorso luglio, i membri del parlamento britannico a chiedere all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di aprire un'indagine.
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Le conclusioni dicevano che «mentre lo streaming ha portato profitti significativi all'industria della musica, i talenti dietro ad essa - artisti, cantautori e compositori - stanno perdendo terreno» e che solo un cambiamento completo «che sancisca per legge i loro diritti a una giusta quota dei guadagni potrà risolvere il problema».
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Intanto c'è chi si ingegna: la band The Pocket Gods ha annunciato la pubblicazione di un album fatto di mille canzoni della durata di 30 secondi ciascuna, scelta non casuale: Spotify conta un brano come «in streaming» dopo essere stato riprodotto per 30 secondi e la royalty è la stessa indipendentemente dal fatto che l'ascoltatore riproduca il brano completo o meno. Titolo del disco: 1000×30 - Nobody Makes Money Anymore.
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