Lorenzo Ormando per “Il Venerdì di Repubblica”
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Se non teniamo conto di Batman Dracula, omaggio in bianco e nero che Andy Warhol girò nel 1964 senza il permesso della DC Comics e che finì per essere proiettato solo nelle sue mostre, la prima incursione di Batman sui nostri schermi risale al 1966, quando la serie con protagonista Adam West fece il suo debutto in tv.
«Da bambino ne ero ossessionato, ogni episodio era pieno di azione e ironia. È stata la mia introduzione al personaggio: pur amando molto tutti i film che sono stati realizzati negli anni e le interpretazioni di Michael Keaton, Christian Bale e Ben Affleck, quella versione occupa ancora un posto speciale nel mio cuore» ci racconta il 55enne americano Matt Reeves, che dopo aver spaziato tra l'horror (Cloverfield e il remake di Lasciami entrare) e la fantascienza (gli ultimi due capitoli del Pianeta delle Scimmie) si avventura adesso nel mondo dei fumetti.
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Il 3 marzo sbarca finalmente in sala l'atteso The Batman, da lui diretto, co-scritto e co-prodotto: stavolta l'uomo pipistrello, creato nel 1939 da Bob Kane e Bill Finger, ha i lineamenti di Robert Pattinson, qui nei panni di un vigilante che da appena due anni pattuglia le strade di Gotham City e ha ben pochi alleati al suo fianco, tra cui il fedele Alfred (Andy Serkis) e il tenente James Gordon (Jeffrey Wright).
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La comparsa di un serial killer lo condurrà nei bassifondi della città, dove farà la conoscenza di Selina Kyle/Catwoman (Zoë Kravitz) e di personaggi ambigui e pericolosi come il Pinguino (Colin Farrell), Carmine Falcone (John Turturro) e l'Enigmista (Paul Dano).
«La mia è una detective story che esplora il tessuto criminale di Gotham City. Ho voluto Pattinson dopo averlo visto nel thriller Good Time, in cui emergevano sia la sua vulnerabilità che la sua forza. È un attore camaleontico» prosegue il cineasta quando lo incontriamo su Zoom, in collegamento da Los Angeles. Prima che il progetto passasse nelle sue mani, Ben Affleck era al lavoro su una sua versione, che avrebbe anche dovuto scrivere e dirigere.
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In che cosa si differenzia la sua sceneggiatura rispetto a quella di Affleck?
«Sono completamente diverse. La prima volta che Warner Bros mi ha parlato del copione a cui stavano lavorando ero ancora impegnato con The War. Il Pianeta delle scimmie. Avevano delle idee fantastiche che però non sentivo vicine, preferivo affrontare il personaggio da altri punti di vista. Il mito di Batman dà spazio a infinite rivisitazioni, ma volevo essere certo di avere qualcosa di definitivo da dire sul suo conto».
Ci spieghi meglio.
«Volevo che il film si reggesse sulle sue gambe e non avesse legami con altre pellicole: ad esempio qui non ci sono personaggi provenienti da mondi diversi da quello di Batman, come invece accadeva nella versione di Affleck. Questa doveva essere la storia definitiva di Batman: un racconto personale, in grado di appassionare e coinvolgere il pubblico, in cui il protagonista fosse alle prese con una situazione che lo scuote nel profondo e lo porta a mettere in discussione le sue certezze».
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Come mai ha scelto di concentrarsi su una versione più giovane del personaggio?
«Non raccontiamo le sue origini, non ci sono la morte dei genitori e la sua infanzia. Vediamo un uomo traumatizzato e in lotta con se stesso, che sta ancora cercando di capire come si diventa Batman. Talvolta fallisce e sbaglia, pur volendo fare del bene. Non è ancora diventato un simbolo di speranza per i cittadini di Gotham, che spesso sono intimoriti da lui. Mi sono ispirato in parte a Batman: Anno uno di Frank Miller, che è calato nella realtà proprio come il mio film».
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Sia Bruce Wayne che Cesare nel Pianeta delle scimmie sono alle prese con i propri demoni e lottano per fare la cosa giusta in un mondo disordinato e caotico. Cosa la spinge verso questo tipo di storie?
«Non mi reputo in alcun modo un leader o un eroe, ma mi sento vicino a entrambi per via delle loro sofferenze. L'unico modo che conosco di fare un film di genere, specie se ricco di elementi mitici come questo, è di trovare degli aspetti personali, umani. Non mi è mai capitato di salvare qualcuno, ma la fatica di chi lotta e ha difficoltà ad adattarsi a una società imperfetta è vicina alla mia visione del mondo. Spesso i supereroi hanno un senso di invincibilità, una cosa molto lontana da me e a cui non sono interessato, specie quando si tratta di raccontare delle storie. Batman ambisce a perfezionarsi per raggiungere un controllo completo su se stesso, ma è un viaggio senza fine: possiamo solo procedere nelle nostre vite cercando di continuare a imparare».
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Che tipo di atmosfere ha creato per la sua Gotham City?
«Volevo che la pellicola fosse un noir classico e, da questo punto di vista, uno dei titoli che mi hanno influenzato maggiormente in fase di scrittura è stato Chinatown. Il film di Roman Polanski parla di un luogo sbagliato e corrotto, dove cercare di fare la cosa giusta può sembrare inutile e in cui l'investigatore privato interpretato da Jack Nicholson indaga su una serie di crimini. Proprio come accade a Gotham, per certi aspetti. La città che appariva nelle pellicole di Tim Burton era splendida e molto teatrale, mentre la mia ricorda una città americana in cui il pubblico non ha mai messo piede. Abbiamo girato a Liverpool, dove c'è molta architettura gotica, aggiungendo gli edifici più moderni in post-produzione grazie agli effetti speciali».
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Perché 80 anni dopo la sua creazione Batman continui a sedurre gli spettatori?
«Fu creato in risposta a Superman, che è invece un personaggio fondamentalmente ottimista, un alieno indistruttibile e in grado di volare. Batman non è un supereroe, vive in un mondo buio e ha un passato doloroso che lo ha spinto a indossare questo costume. Bruce Wayne è un uomo a cui è stato sottratto tanto e che è disposto a tutto pur di rendere il mondo un posto migliore: da un lato ci identifichiamo con il suo dolore e la sua rabbia, dall'altro rivediamo la nostra società in questa storia senza tempo. Bruce è imperfetto e cerca di trovare la sua strada in un mondo corrotto, il che mi sembra più rilevante che mai».