Estratti dell'articolo di Maria Elena Barnabi per Gente
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foto Massimo Sestini per Gente
La prima cosa che ho detto a mio fratello quando ho iniziato a parlare è stata: “Chiamami Carlo”. Avevo tre anni».
E lui?
«Così fece. Per lui ero Carlo. Per mia mamma era un gioco tra di noi. Invece a tre anni avevo già la disforia di genere. Non ero Susanna, non lo sono mai stata».
All’asilo che dicevano?
«Che ero ingestibile, che sarei finita in manicomio. Avevo delle crisi pesanti. Mi hanno mandato via. Ho pagato un prezzo molto alto».
Susanna Tamaro mi dice queste cose guardandomi in faccia con quei suoi occhi azzurri trasparenti, occhi che se guardi bene in fondo ci vedi una favola, e penso a quella bambina incompresa. Una bambina autistica – ha la sindrome di Asperger – con genitori difficili, che viene affidata a una casa famiglia, che poi vince una borsa di studio per il prestigioso Centro di cinematografia di Roma e che, dopo tanti anni, diventa la scrittrice italiana più venduta al mondo con la cifra record di 18 milioni di copie. Siamo a casa sua, un casale immerso nel verde della provincia di Orvieto.
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Con noi c’è la sceneggiatrice e scrittrice Roberta De Falco, sua compagna di vita da ormai 35 anni, e ci sono anche cinque cani, due asini, un numero imprecisato di gatti. La scrittrice 66enne, ciclicamente, torna a far parlare di sé e divide l’opinione pubblica. Prima perché ha espresso una posizione netta contro l’aborto (tema centrale anche del suo ultimo libro Il vento soffia dove vuole), poi perché, pur vivendo con una donna, si è rifiutata di dichiararsi omosessuale.
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Crescendo è stata meglio?
«Peggio. Piangevo tutta la notte, distruggevo le bambole, mi buttavo per terra, urlavo per ore. Ho preso psicofarmaci fin da quando ero piccolissima. Ero sola. La disforia è una sofferenza devastante. Ma il mio problema vero era la sindrome di Asperger: negli Anni 60 nessuno ne sapeva niente. Capii che dovevo ritirarmi in me stessa se volevo sopravvivere».
La disforia di genere, si è scoperto, è spesso correlata all’autismo.
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«Moltissime ragazze con la sindrome di Asperger hanno la disforia di genere. È proprio un sintomo tipico. Non capiamo l’emotività, quello che ci dicono le persone. Abbiamo bisogno di messaggi chiari. Il cervello delle femmine autistiche è molto simile a quello maschile. Così ti viene quasi naturale identificarti con loro. Però i medici anziché capire che queste ragazze sono autistiche, le diagnosticano come disforiche, oppure come borderline. E presentano la cura a base di farmaci bloccanti della pubertà come la soluzione ideale. Ma sbagliano».
Cosa è successo poi nella sua vita?
«Quando ho scoperto i ragazzi – saranno stati gli ormoni, la crescita, l’innamoramento – la disforia è passata. Ero androgina e lo sono rimasta. Ma io mi sento profondamente femminile. Non metto i tacchi a spillo. E allora? Sono meno donna?».
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Torniamo alla sua storia. Quando la disforia è passata, le cose si sono un po’ risolte?
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«No, con l’adolescenza l’autismo è diventato ingestibile, ma io non sapevo cosa mi accadeva. Neppure gli altri. A scuola andavo malissimo, non capivo niente. Lo smarrimento delle persone con problemi neurologici è totale. Quello che per gli altri era facile, anche solo semplicemente uscire a cena, per me era impossibile».
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Ha avuto molte storie d’amore?
«Ho avuto dei fidanzati».
Avrebbe voluto un figlio?
«Quando ero giovane e molto innamorata sì».
Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Più o meno a 30 anni mi resi conto che le mie condizioni mentali non mi avrebbero mai permesso di prendermi cura di un bambino. Troncai la relazione che avevo e così finirono anche i miei rapporti con gli uomini».
Fu lì che incontrò Roberta?
«La conobbi un po’ prima. Avevo un’asma gravissima, mi consigliarono di andare a vivere in campagna, lei cercava una coinquilina. Cominciammo a vivere assieme e nacque la nostra relazione».
Come definisce questo rapporto?
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«Un’amicizia spirituale. Siamo un po’ sorelle, un po’ mamma l’una dell’altra. Forse lei è più mamma di me. Ci piace fare le stesse cose, leggere, vivere nell’amore. Viviamo nell’Occidente libero e non in Afghanistan: possiamo avere una realtà di convivenza alternativa al matrimonio senza essere sempre costretti a considerare la dimensione sessuale? Perché devo trovare una definizione alla nostra unione?».
Non le manca il sesso?
«Da giovane andava bene. Con la menopausa, chi ne ha voglia? Nella nostra società il sesso è sopravvalutato. Prendere la pillolina a 70 anni per fare l’amore lo trovo ridicolo».
Ad alcuni piace però.
«Quando il fisico ti dice stop, dovresti seguirlo».
La comunità Lgbtq+ l’ha criticata perché non dice di essere lesbica.
«Lo fossi, non avrei problemi a dirlo».
Lei ha dichiarato di essere anche una “madre spirituale”.
«Sì, sono madrina di battesimo di otto ragazzi: il più grande ha 35 anni, la più piccola 8. Alcuni sono stranieri, altri no. Faccio parte della loro vita, do loro consigli, vengono da me. Io e Roberta siamo cristiane credenti, la nostra vita è impostata nell’amore: viviamo qui, con tante persone, in una comunità. Più invecchio e più mi piace stare con i giovani, suonare il piano, studiare gli animali».
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Famiglia allargata, figli “del cuore”, vita nell’amore, fede cristiana: pare Michela Murgia. Però lei ha avuto un trattamento diverso dalla sinistra…
«Michela Murgia era una ragazza un po’ confusa. Comunque l’ho notato anche io. Non so perché».
Forse perché lei si è schierata nettamente contro l’aborto, tema centrale anche del suo ultimo libro?
«In nome dell’ideologia c’è un tabù di cui non si parla mai: il vuoto dentro che le donne sentono quando abortiscono. E poi c’è la menzogna dell’embrione: è già vita».
Per alcune l’aborto è una scelta quasi obbligata, pensi ai casi di stupro. Abolirebbe la legge 194?
«No, non sono contro la legge. Dico che le donne vanno aiutate a prendere la decisione giusta. Con consapevolezza».
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Fosse capitato a lei?
«Fossi rimasta incinta a 18 anni forse avrei abortito. Ma allora non ero consapevole delle conseguenze terribili che questa scelta avrebbe potuto avere su di me. Nel mio libro ne parlo».
È vero che Il vento soffia dove vuole è il suo ultimo romanzo?
«Penso di sì. Mi sono tanto stancata a scriverlo. Penso sempre alla morte da quando sono piccola e a dirla tutta non penso che vivrò a lungo. È importante, a una certa età, rendersi conto che la vita può finire improvvisamente e che devi lasciare qualcosa dietro di te. Scriverò dei libri per bambini e continuerò a intervenire sugli argomenti che mi stanno a cuore, come l’educazione dei giovani».
E la sua vita con l’autismo come va?
«Ho avuto la mia diagnosi solo pochi anni fa. Mi hanno dato un farmaco che mi ha cambiato la vita. È stata una liberazione. Finalmente».
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