Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano”
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No, non si incontreranno all 'inferno, dove Keith ha già prenotato un girone tutto per sé e Mick verrà a patti con Lucifero. Charlie è atteso in purgatorio, poi si vedrà. Però è incredibilmente lui, il meno coinvolto con i peccatacci degli amici, il secondo Stones a dover raccontare a chi governa l'Altra Parte cosa significhi stare per sessant' an ni dentro la band che ha spaccato in due la storia del rock. La dipartita di Watts è un grottesco paradosso: ma come, Charlie?
L'eterno marito fedele alla sua Shirley tirato via dalla Terra prima di quella gang di puttanieri impenitenti? Charlie, il raffinato umarell che storceva il muso quando gli altri si davano alla pazza gioia? Come è possibile che i pedestri accidenti della salute si siano portati via il più saggio e posato della cricca? Il cancro alla gola diagnosticato nel 2004, lo sfibramento del cuore nelle scorse settimane, con operazione d'emergenza e l'annuncio della defezione per No Filter, il tour autunnale dove era già stato sostituito da un supplente di lusso come Steve Jordan.
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Troppi chilometri, evidentemente, per un motore arrivato logoro agli ottant' anni. Aveva datoper una vita intera il tempo a quegli sconsiderati con cui divideva il palco. Anzi, li aveva anticipati, proteggendoli dal rischio della catastrofe che incombeva sui Rolling Stones all'attacco di ogni canzone. Una volta Keith Richards ce lo confermò: "Tante sere sono così strafatto che non so quale accidente di pezzo stia per arrivare, anche se quella scaletta l'ho ripetuta mille volte. Se non ci fosse Charlie dietro i tamburi a dare la direzione del concerto saremmo perduti. Io seguo lui, io sono il suo chitarrista".
Ecco perché Watts era il più rock della combriccola. Regale per sobrietà, essenziale nel tocco. Lavorava per sottrazione: l'amore per il jazz, combinato con quello per il blues, gli suggeriva di cercare solo i suoni che servivano, evitando l'inutile fracasso con cui tanti altri batteristi r' n'r facevano circo. Tanti critici lo sottovalutavano, in questo accostandolo a Ringo: come se i due più leggendari gruppi di ogni era fossero stati sfortunati, o miopi, a scegliersi dei tamburini poco appariscenti.
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Ma nessuno può immaginare un suono dei Rolling Stones senza gli spazi aperti dalla discrezione di Charlie, quel tum-tum che non copriva mai la voce di Mick o le chitarre di Keith e di Ron Wood. Sottolineava ancora Richards: "Esiste una grande differenza tra chi si allunga sulla pista di decollo e chi veramente vola. Watts è un musicista fantastico". E lui era il suo chitarrista. Perché il Capo parlava poco, ma quando voleva sapeva farsi rispettare. Eccome. Come quella notte ad Amsterdam, 1984. I saltimbanchi Stones alle prese con l'ennesima notte a base di tutto: alcol, droga, pollastrelle.
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Aggrovigliati alla fune della perdizione. Ne manca solo uno all'ap pello. Charlie dorme, a lui basta una donna sola, Shirley. Quando ormai il buio sta per cedere il passo all'alba, Jagger decide di telefonargli per convocarlo: "Hey, che fine ha fatto il mio batterista?". Watts lo invita nella propria stanza, dove si precipita pure Keith. Ma qui Watts cambia pelle: prende per il bavero quel giuggiolone di Mick e gli molla un pugno sul naso, facendolo quasi precipitare giù dalla finestra. "Non azzardarti mai più a chiamarmi 'il tuo batterista'. Semmai sei tu il mio cantante, intesi?".
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Intesi. Ed era uno che perdeva raramente la calma, una pazienza che neanche Giobbe. Ovvio, aveva testimoniato ogni follia, sin dall 'inizio. I concerti degli anni Sessanta, che duravano un quarto d'ora prima che le ragazzine infoiate dessero l'assalto al palco per aggrapparsi ai jeans del 'cantante', e giù il sipario. La morte di Brian Jones, entrato per primo nel club di quelli crepati a 27 anni, ma al live di tributo ad Hyde Park anche le farfalle che Jagger voleva si alzassero in volo erano già morte pure loro dentro le scatole.
E l'orrore di Altamont, quando alla fine dei Sessanta mancano pochi giorni: il maxiraduno va in vacca, i criminali del servizio d'ordine, gli Hell's Angels, ammazzano uno spettatore decretando anche la fine dell'utopia di Woodstock e la proroga dell'incubo di sangue già materializzato dalla setta di Charles Manson. E la paranoia dei Settanta, vissuti pericolosamente dagli Stones in Costa Azzurra, nella villa che era il bengodi di tutti i trafficanti di droga d'Europa. E dopo, il vivacchiare sornione dei miti. E poi la fine, adesso.
Perché questa è la fine dei Rolling Stones, ladies and gentlemen. L'ha certificata Charlie Watts, che in purgatorio si è portato i disegni, tracciati dalla sua mano, di tutte le camere d'albergo che ha occupato in tour. Quando aveva nostalgia di Shirley lontana e si azzuffava con Mick.
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2 - FRANZ DI CIOCCIO "CON IL SUO STILE È RIUSCITO A FARCI BALLARE TUTTI"
Carlo Moretti per “la Repubblica”
Di ritorno da un festival rock in Germania dove si è esibito con la sua Pfm, il batterista Franz Di Cioccio ha appreso della scomparsa di uno dei suoi miti, un esempio per lui.
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Cos' ha rappresentato Charlie Watts per il rock?
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«Innanzitutto è stato fondamentale per il suo stile, proprio perché non ha mai esagerato in un ambiente come quello del rock, ha invece portato la sua misura di persona a modo. E poi perché è stato un batterista estremamente efficace per quello che doveva fare, nulla di più. Il miglior batterista per me è quello che fa girare bene la sua band, non esiste il miglior batterista, non è una corsa di velocità sui cento metri, non c'è un tempo da battere. Nella musica conta solo l'emozione».
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Cosa le viene subito in mente se si pronuncia il suo nome?
«Il tempo di Satisfaction : ta-tta-tara-tà, lui portava questo tempo e ti faceva ballare. Oppure il tempo di The last time . Watts ha sempre suonato senza troppi fronzoli, sempre efficace nel fare quello quello che doveva fare.
Come Ringo Starr che quando suonava Help usava lo stile razzle-dazzle , dando la mano a mulinello sul piatto che provocava quel suono caratteristico. Allo stesso modo Watts aveva sviluppato un suono riconoscibile grazie alla sua impostazione jazz: usava la mano sinistra di traverso, non dritta come fanno i timpanisti.
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Era l'unico nella scena rock che suonava così ed era molto curioso, quel colpo calava giù sul rullante in un modo unico, era lui che ti faceva ballare, ha fatto ballare tutti noi».
Da batterista e frontman quale lei è, cosa pensa di Watts al contrario quasi nascosto dietro alla batteria?
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«Ma lui aveva davanti Mick Jagger, stiamo parlando di un colosso dell'entertainment. Io tutto quello che so fare lo metto a disposizione, a un certo punto c'era un vuoto interpretativo e ho preso in mano il ruolo. Non sono l'unico, l'ha fatto anche Phil Collins. Adesso suoniamo con due batterie in fila, ci divertiamo di più».
Quella di Watts al contrario essenziale, quattro tamburi.
«Ti fa capire il momento storico, nel loro rock la batteria deve tenere il tempo, è il batterista che ti fa ballare. Il progressive ha talmente tanti colori che hai bisogno di più piatti e di più tamburi, nel rock non serve a meno che tu non voglia fare scena. E non è il mio caso»
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