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    AVANTI MARSH! ALTRO CHE IL DOTTOR HOUSE: VITA, MORTE E MALATTIE SPIEGATE DAL NEUROCHIRURGO HENRY MARSH - “LE OPERAZIONI SONO LA PARTE PIÙ FACILE, LA COSA DAVVERO DIFFICILE È PRENDERE LE DECISIONI” - L’INTERVENTO SULL’ANEURISMA PARAGONATO AL DISINNESCO DI UNA BOMBA


     
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    Gabriele Romagnoli per “la Repubblica”

     

    Questo libro s’intitola “Primo non nuocere”, lo pubblica in Italia Ponte alle grazie, costa 16,80 euro, è di 328 pagine (ringraziamenti inclusi) e l’ha scritto il neurochirurgo inglese Henry Marsh.

     

    È altamente sconsigliato a chiunque: abbia da qualche giorno un inspiegabile mal di testa, debba essere prossimamente operato, sia convinto che l’esito di quello e qualsiasi altro intervento dipenda esclusivamente dall’abilità del chirurgo, attribuisca una dose anche minima di etica al destino, preferisca evitare le domande chiave per non avere le risposte serratura difettosa e (questo si capirà alla fine, ma proprio alla fine) ritenga di avere ancora qualcosa da dire.

     

    È invece un testo che si addice a chi: ha scelto di guardare la vita in faccia anche se le praticassero un’incisione sotto la calotta cranica e riversassero sugli occhi la pelle della fronte, concepisce il miracolo dell’esistenza come un preciso lavoro di falegnameria affidato ad artigiani bendati, si è alzato in piedi e ha detto la sua quando era il momento, ne ha pagato le conseguenze e non ha rimpianti.

     

    Ecco, quest’uomo può essere un paziente di Henry Marsh, può esserne un lettore. Può entrare in ospedale o in biblioteca, trovarcelo, ascoltarlo e annuire consapevole: così è la vita, così la morte, così la neurochirurgia.

     

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    Marsh, prima ancora che medicina, ha studiato filosofia, politica ed economia. Pensionato, si dedica alle api, alla bicicletta e a quelle cartelle cliniche che sono i ricordi. Li riesamina, li classifica, toglie la patina confusa del presente e ce li restituisce spietati, ordinati in capitoli che hanno per titoli nomi di malattie, da “Pineocitoma” a “Anestesia dolorosa”. Non è una serie di episodi da sceneggiato medico. Il dottor Marsh non è il dottor House, non ci sarà mai la puntata in cui sfida dio perché ha perso in partenza e lo dichiara.

     

    Si confessa, con ammissione di colpe e meriti. La sua trasparenza ti taglia come scheggia di cristallo e fa male. Lui ti porta con sé, pedalando lento, da una casa dove sembra non dormire mai alla sala operatoria. Il tragitto è tutto su una linea: di qua la sopravvivenza, di là la fine, oppure, svirgolando e ritrovando equilibrio, una menomazione permanente.

     

    Ci sono definizioni senza ritorno. Una è questa: «I neurochirurghi descrivono l’intervento sull’aneurisma come il disinnesco di una bomba, anche se il coraggio che si richiede è di tipo diverso, dal momento che a rischiare la vita è il paziente, non il chirurgo».

     

    Lui è un artificiere assicurato, sei tu ad avere l’ordigno in testa. Tu rischi la vita, lui un rimorso. Se credi che abbia il controllo totale, disilluditi: «Molto di quanto succede negli ospedali è questione di sorte, buona e cattiva ».

    HENRY MARSH HENRY MARSH

     

    Ogni medico è un esaltato con la vocazione dell’indifferenza, capace di pensare cose come: «Arrivai allegro al lavoro: c’era in lista un bell’angioblastoma cerebellare, un tumore raro formato da una massa di vasi sanguigni». Tutta la sala operatoria è così:

     

    «Dottori e infermiere vanno matti per i casi drammatici» e la mattina in cui si deve operare una giovane donna incinta, colpita da un meningioma che la sta rendendo cieca, facendo contemporaneamente nascere il bambino, «si respira un’aria quasi da luna park».

     

    Dopo, è il momento del bricolage per Quentin Tarantino: «L’uso della sega del Gigli appare brutale perché, muovendola avanti e indietro, si provocano spruzzi di sangue e osso e perché produce uno sgradevole stridio».

     

    Manovre come questa dischiudono paesaggi che solo un appassionato può descrivere come se avesse spalancato la porta di un capolavoro romanico: «Sto guardando il centro del cervello... sopra di me, come le volte sul soffitto di una cattedrale, ci sono le vene profonde e al di là di queste la vena basale di Rosenthal e poi, nella linea mediana, la grande vena di Galeno, bluastra e scintillante».

     

    Arte della creazione, minata da un male che potrebbe portarla alla putrefazione. Al bivio, un uomo che cerca di trascinare il dormiente verso la salvezza, sapendo che non tutto è nelle sue mani, ma sarà poi difficile spiegarlo; che nel corso della carriera farà felici molti liberandoli dal male, ma dovrà affrontare terribili insuccessi e conseguenti periodi di profonda disperazione; che, soprattutto, dovrà convivere con un personale cimitero.

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    È proprio nella cattiva sorte che il neurochirurgo deve riatterrare, ridimensionarsi e accettarsi. C’è una verità fondamentale che Marsh tramanda, avendola appresa da un primario nella sua gioventù: «Le operazioni sono la parte più facile, la cosa davvero difficile è prendere le decisioni».

     

    Ci sono tre righe la cui sincerità sbigottisce, provenendo da un uomo che ogni giorno si trova davanti “bombe a orologeria” nei cervelli altrui e prova a disinnescarle. Quest’uomo scrive: «Mi capita di parlare con i miei colleghi di ciò che faremmo se a noi fosse diagnosticato un tumore maligno al cervello e di solito io dico che spero di riuscire a uccidermi».

     

    Poi aggiunge: «Anche se non sai mai con certezza che cosa deciderai fino al momento in cui ti succede veramente». Le decisioni, appunto: rieccoci al punto cruciale. Quella che eventualmente prendiamo, da soli o con il medico, arrivati a quel bivio, è solo l’ultima di una catena e neppure la più importante. Conta come ci siamo arrivati, quel che abbiamo deciso nella vita precedente.

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    Per questo il personaggio più straordinario del memoir del dottor Marsh, oscar per la migliore attrice non protagonista, è sua madre, rievocata nel capitolo “Carcinoma”. Nata nella Germania nazista, rifiutò di entrare nella gioventù hitleriana ed emigrò nel 1939.

     

     

    Scelse sempre la libertà e l’amore, fino alla decisione di non curarsi e morire a casa, nella stanza che aveva diviso per quarant’anni col marito, con una collezione di uccelli e uova di porcellana sul camino. Fra coscienza e incoscienza disse, in tedesco e in pace: «È stata una vita splendida. Abbiamo detto tutto quello che c’era da dire».

     

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