Aldo Grasso per il "Corriere della Sera"
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Il «period drama» di Netflix, creato da Peter Morgan, già sceneggiatore di «The Queen», inizia con il matrimonio tra Elisabetta e il principe Filippo nel 1947, e il secondo insediamento come primo ministro di Winston Churchill che aveva appena detto alla radio: «Un periodo di prosperità ci attende perché la storia insegna che governati dalle nostre regine siamo sempre stati capaci di imprese straordinarie».
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Prosegue poi con la morte di re Giorgio VI, padre di Elizabeth, e la sua successiva incoronazione, avvenuta nel 1953. Nelle altre due stagioni, la narrazione degli eventi comprende i mandati a primo ministro di Anthony Eden e Harold Macmillan e lo scandalo Profumo, fino al marzo 1964, anno di nascita del principe Edoardo, ultimogenito di Elisabetta e Filippo.
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Il racconto della regina (Claire Foy, stagioni 1-2) e della British Royal Family è una vivida lezione di storia, senza colpi di scena, ma senza che l'attenzione subisca cali. Come se le psicologie dei personaggi fossero altrettanto decisive degli avvenimenti storici. Elizabeth costituisce soprattutto l'incarnazione perfetta del potere regale, ogni suo gesto riveste una funzione sacrale. Agli occhi degli inglesi (e degli spettatori) conta ciò che il sovrano è, ma conta molto di più quello che rappresenta.
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L'ottima impressione che suscita «The Crown» dipende in buona parte dal rispetto che il creatore della serie, Peter Morgan ha per la Corona. Come ogni inglese, del resto, si dimostra molto legato alle proprie tradizioni monarchiche, a quell'inarrivabile, intoccabile mondo di fiaba e di orgoglio nazionale. Per nostra fortuna, il rispetto di Morgan si traduce in una scrittura che non lascia nulla di intentato, in una narrazione che rispetta sia la Storia che le storie. «L'età non è clemente con nessuno. Non ci si può fare niente, si può solo andare avanti».
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È una regina Elisabetta ancor più indurita dal tempo, dalle responsabilità e dalle perdite ad aprire la terza, solenne stagione di «The Crown». È una stagione di passaggio, che si scontra con il non facile compito di raccontare un periodo meno noto e caratterizzato della storia inglese. Ci si avvicina ancora un passo alla contemporaneità, lasciandosi alle spalle gli anni fondativi di Winston Churchill - «il mio angelo custode» lo definisce la Regina - che coincidono anche con quelli del romanzo di formazione di Elisabetta II, ma la serie si prende un attimo di respiro prima di distendersi fino all'epoca tatcheriana e agli anni glamour e tumultuosi di Lady D, che saranno oggetto della prossima stagione.
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Il radicale cambio di cast, deciso per rendere credibile l'invecchiamento dei personaggi, contribuisce al differente sapore di questi nuovi episodi e dice molto dell'ambizione e della complessità del progetto «The Crown». Olivia Colman (stagione 3), nei panni di Elisabetta, dà vita a una regina più dolente, sferzata da un vento di cambiamento che non sempre riesce a capire, ancora convinta di poterlo governare ancorandosi all'immobilismo di tradizioni centenarie.
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L'ascesa dei laburisti la mette a confronto con un primo ministro sospettato di essere in contatto con i sovietici e il rapporto è tutto in salita, giocato su linguaggi e visioni del mondo che non potrebbero essere più distanti. Oltre alla titanica impresa di raccontare una storia patria che, in fondo, non appartiene ancora al passato ma è parte del nostro presente, lo sforzo di «The Crown» è tutto teso a rappresentare Elisabetta nelle sue tre diverse anime di donna, capo di Stato, ed esecutrice di un progetto sovrannaturale (è unta con l'olio sacro).
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Un gioco in punta di scrittura e di sottigliezze espressive del cast. Come ha scritto Dario Ronzoni, «è tutto nella natura di "The Crown", una serie che di fatto non segue le regole delle serie tv: nessuno la guarda per sapere come andrà a finire la storia. Tutti la seguono per vedere come viene rappresentata. Nell'epoca dei selfie, è l'equivalente dell'attesa necessaria per lo sviluppo di un rullino fotografico. Solo a distanza di giorni, anche settimane, si potrà vedere come si era al momento dello scatto. E riconoscersi».
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