Fulvio Fiano per il Corriere della Sera – Roma
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Dalla teoria alla pratica. Le intercettazioni ambientali in casa di Fabrizio Fabietti, via Tiburtina 739, spiegano bene come funzionava la «batteria» di picchiatori dedicata al recupero crediti. Il 19 aprile 2018 Fabietti ne parla in relazione a uno dei due episodi di pestaggio diventanti altrettanti capi di imputazione. La Procura ha chiesto il riconoscimento del metodo mafioso, aggravante che il gip ha però rigettato.
«Mo' ti faccio un esempio...mi chiami a me giusto? E mi dici che vogliamo parlare... ti dico vabbè e vengo io...
poi viene Diabolik, poi viene Pluto, poi viene Kevin... gli diciamo "Senti, ci devi dare altri soldi..." li sterminiamo tutti», spiega Fabietti a un associato.
Poi passa ai fatti e contatta Piscitelli "Diabolik": «Aho', il ferramenta lo dobbiamo massacrare...dobbiamo fare 3/4 azioni brutte...». Il riferimento è ad Agostino e Vincenzo Vallante, padre e figlio titolari di un negozio di ferramenta ma anche clienti di Fabietti, dal quale comprano all' ingrosso e vendono al dettaglio.
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Il debito ammonta a 90 mila euro e nonostante il ritardo nel saldo i due chiedono una dilazione. «Al figlio gli mando tutta la batteria, ti faccio vedere come si caga sotto». E ancora: «Mo' lo sfondo al padre, gli faccio male. Mi dà fastidio la maleducazione. Gli mando Pluto, poi da Kevin lo faccio fratturare proprio».
Ancora più esplicito il racconto del pestaggio di un altro debitore, il greco Anxelos Mirashi, conosciuto da Fabietti in cella e diventato suo cliente («Stava in cella con me... gli ho fatto fare il signore in galera...»). La batteria è composta da Kevin Di Napoli, pugile professionista, Andrea Ben Maatoug "Il Pischello" e i due fedelissimi di Piscitelli per la militanza negli Irriducibili della Lazio, Ettore Abramo "Pluto" (celebrato in curva Nord assieme a "Diabolik") e Aniello Marotta. Gli ultimi due sono ritenuti responsabili anche di aver dato fuoco a tre auto dei vigili urbani nella finale di Coppa Italia Lazio-Atalanta dello scorso maggio.
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Come ricostruito dalle indagini, i quattro si presentano vestiti con le pettorine e i distintivi dei carabinieri e la consegna di non parlare per non farsi riconoscere: «Dobbiamo sfondarlo proprio, lo devi squarta'». «Le coltellate non gliele dò profonde, non le dò sulla femorale sennò lo ammazzo. A parte che poi zampilla...». Una volta rientrati alla base raccontano l' azione con dovizia di particolari: «Lui si muoveva, non stava fermo, non puoi capire la gente che ha fatto uscire tanto che urlava e chiedeva aiuto.
"Prendiamo la targa, chiamiamo i carabinieri", ha fatto uno. "Guarda che i carabinieri siamo noi", gli ho detto».
FABRIZIO RISCHIA CHE QUALCUNO GLI TIRI UNA SVENTAGLIATA
Giovanni Bianconi per corriere.it
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Il 10 agosto 2018, un anno prima di essere ucciso su una panchina del Parco degli Acquedotti, Fabrizio Piscitelli detto Diabolik stava trattando un carico da una tonnellata e mezzo di hashish, comprata a 350 euro al chilo e rivenduta a 850. «Hai capito che ti voglio dire... - spiegava al suo amico Fabrizio Fabietti -, a 850...
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La porta a 3 e 50... Che ce ne frega». Un bel guadagno, anche con le «stecche» dovute ai complici, che lascia intendere il giro d' affari gestito da quello che la Procura antimafia di Roma e i detective della Guardia di finanza considerano il clan che gestiva buona parte del mercato della droga nella Capitale. Cocaina compresa.
«Bella eh...? Te l' ho detto, lo sai che è quella, che è pasta di cocaina...», diceva Fabietti a un bosniaco che appariva preoccupato per l' eccessiva purezza della sostanza stupefacente, pari al 98 per centro: «Eh, ma è troppo potente... 9 e 8 esce...». In un' altra occasione ancora Fabietti discuteva - secondo gli inquirenti - di una partita di «fumo» da 150 chili con un altro interlocutore: «Centocinquanta, quante ne vuoi?... Pigliatene di più, è buono, ce l' hai solo te... Cinque balle pigliati... La devo dare a tutta Roma».
L' operazione chiamata «Grande raccordo criminale» svela il lato oscuro del mondo di Diabolik, estremista nero e capo ultrà laziale celebrato dopo la morte non solo nella sua Curva. Ma anche, stando alle accuse, capo di un' organizzazione criminale che agiva «con le modalità del metodo mafioso». Il giudice delle indagini preliminari per ora ha negato questa aggravante, ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino e il sostituto Nadia Plastina continuano a contestarla; anche in virtù dell' omicidio Piscitelli e altri episodi violenti che hanno coinvolto alcuni indagati.
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L' inchiesta non ha portato agli assassini di Diabolik, ma ha scoperchiato il contesto nel quale sarebbe maturato il delitto. Confermato dai timori espressi da uno dei suoi amici e complici, che paventava vendette e reazione violente: «Non sta bene... Lui è Fabrizio Piscitelli... Pensa che comunque non ci può essere un matto che prende e gli tira una sventagliata sul portone. Non lo capisce...».
È accaduto di peggio, e secondo i pm quell' esecuzione dimostra che «Piscitelli, proprio per la crescita del suo prestigio criminale e del riconoscimento della sua leadership da parte di altri personaggi di primo piano della malavita operante a Roma, si sentiva troppo sicuro di sé ed era divenuto imprudente, destando evidentemente la preoccupazione del suo "fedelissimo", consapevole della fragilità degli equilibri in un contesto delinquenziale così affollato e competitivo».
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L' eliminazione di Diabolik è uno dei sintomi che quegli equilibri si sono spezzati, e i regolamenti di conti sono proseguiti anche dopo: due settimane fa un altro degli indagati arrestati ieri, il quarantenne Leandro Bennato, è stato ferito in un agguato che probabilmente, nelle intenzioni dei sicari, doveva essere mortale. L' uomo è accusato di aver partecipato (mentre era latitante per un' altra condanna) al pestaggio di un presunto debitore del clan per oltre centomila euro. Gli investigatori hanno seguito quasi in diretta l' aggressione subita dalla vittima attraverso le intercettazioni a casa di Fabietti, 42 anni, considerato il più stretto collaboratore di Piscitelli. Dirigeva i traffici dagli arresti domiciliari pensando di essere protetto da «soffiate» sulle indagini, bonifiche e precauzioni; ma restava sospettoso: «Io sono rovinato se questo ce l' avemo sotto», diceva a proposito di un telefono ritenuto sicuro, mentre le microspie della Finanza registravano le sue parole.
Il pestaggio risale all' aprile 2018, e le «cimici» hanno captato ogni dettaglio dei preparativi. Doveva essere una «punizione esemplare» perché i «buffi si pagano», ma soprattutto un' affermazione di «onore criminale» nei confronti di chi aveva sgarrato: «A me dei soldi non me ne frega un c... è la soddisfazione personale che non deve camminare più», spiegava Fabietti. Il quale dopo l' azione doveva avvertire qualcuno (nell' interpretazione degli investigatori proprio Diabolik) che tutto era andato secondo i piani.
«Massacrato... Gli posso dire?
Proprio distrutto...», chiedeva al complice appena rientrato dalla missione, che confermava: «Spappolato».
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