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    NELLE RETE DEL CRACK FINISCONO ANCHE GLI INSOSPETTABILI – DA TORINO ARRIVA LA STORIA DI UN MANAGER INFORMATICO, CON UN OTTIMO STIPENDIO E DUE FIGLI, CHE HA RACCONTATO PER MESI ALLA MOGLIE DI VIAGGIARE PER LAVORO. IN REALTÀ TRASCORREVA GIORNI E NOTTI A DROGARSI NELLA FABBRICA DISMESSA DI CORSO VENEZIA. FINCHÉ DUE TOSSICODIPENDENTI NON GLI HANNO SPACCATO LA TESTA NEL TENTATIVO DI DERUBARLO ED È RIMASTO IN COMA PER OTTO GIORNI – IL CASO, ARRIVATO IN TRIBUNALE, HA FATTO EMERGERE LA VITA PARALLELA DEL MANAGER: “PER COMPRARE IL CRACK LASCIAVA IN PEGNO IL CELLULARE, LE CARTE DI CREDITO E LA MACCHINA”


     
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    Estratto dell’articolo di Elisa Sola per "La Stampa - cronaca di Torino"

     

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    Una città sommersa. Disseminata nelle vecchie fabbriche in disuso. La Torino del crack è un reticolo di luoghi nascosti. Ma soltanto in apparenza. E' una città di materassi sporchi oltre i mattoni rossi di un capannone in corso Venezia. Posti dove nessuno vuole guardare. La Torino del crack è un agglomerato di vite parallele.

     

    Vite e grete e disperate che nessuno vuole scorgere. E mentre la politica prende atto dell'emergenza di una droga che non è nuova, in tribunale si moltiplicano i procedimenti dove il crack a volte è lo scenario. Altre volte il cuore della storia. I racconti sul popolo del crack non coinvolgono soltanto senza tetto e persone ai margini. Anche insospettabili.

     

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    L'ultimo caso riguarda un dirigente informatico. Un ottimo stipendio, una villetta, una moglie e due bambini. A loro raccontava che andava in trasferta. Poi scavalcava il muro della fabbrica dismessa di corso Venezia e si accampava per due o tre giorni consecutivi. […]

     

    Sulla carta risulta parte offesa in un processo che vede alla sbarra due tossicodipendenti come lui. Lo avevano quasi ucciso, non è chiaro se durante una lite per il crack, o per prendersi la sua macchina. Lui non ha mai svelato la verità. Ha mentito alla moglie e agli investigatori. Non si è mai presentato in aula.

     

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    […] Una mattina all'alba la moglie lo vede rincasare con la testa spaccata. Il volto è una maschera di sangue. La maglietta è strappate. Ha le ossa rotte. Finisce in ospedale e va in coma per otto giorni. «Mi hanno rapinato in due, non li conosco», è quello che il dirigente informatico, che ha 45 anni, dirà ai familiari e alla procura di Torino. Mentendo persino al suo stesso avvocato.

     

    La recita è parte integrante di «una vita parallela», scrive il gup nelle motivazioni della sentenza depositate nei giorni scorsi.

    Chi indaga capisce subito che c'è qualcosa che non torna in quel resoconto. L'analisi delle telecamere della zona rivela un'altra verità. Il dirigente era in auto con i due presunti rapinatori, un uomo e una donna. Non li aveva incontrati per caso. Il suo telefonino conferma che tutti e tre erano in contatto da tempo.

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    Accomunati da un legame pesante: la dipendenza, totale e incontrollabile, dal crack.

     

    Il primo a confessare è l'uomo a bordo della macchina dell'informatico. Ha 48 anni ed è imputato, con una ragazza di 24, di rapina aggravata. «Ci conosciamo perché ci droghiamo insieme. Quell'uomo è ricco. Viene in corso Venezia e ci resta anche tre giorni di seguito. Entra, compra il crack e lo fuma. Per averne ancora lascia in pegno il cellulare, le carte di credito e a volte la macchina.

     

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    Lo conoscono come un buon pagatore. Quella notte dovevamo tornare a casa insieme. Erano le quattro e mezza. Ci ha fatti vagare per ore, in tre posti diversi. Non voleva staccarsi dal sedile della macchina, che ci aveva prestato, perché voleva ancora crack. Era seduto dietro. Non voleva staccarsi dalla pipetta. Lo abbiamo lasciato per strada ma si è attaccato alla portiera. Lo abbiamo trascinato per venti metri».

     

    L'imputata di 24 anni racconta il resto: «Quando siamo arrivati davanti a casa sua, non voleva scendere. Era immobile sul sedile. Voleva fumare altro crack in auto. Il mio amico ha preso un bastone dal baule e lo ha colpito senza pietà per farlo scendere. Ma lui restava fermo. Indifferente. Ha cercato allora di strangolarlo usando la maglietta. Ma niente. Ha preso un cacciavite. Glielo ha conficcato nella schiena.

     

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    Ma lui restava fermo perché voleva ancora crack. Glielo abbiamo dato. Ma non scendeva. Lo abbiamo buttato giù dalla macchina contro il guard-rail. Si è appeso alla portiera. È quasi morto. Avevo il cervello in palla e non riuscivo a fare niente. Abbiamo tenuto la macchina. Era stato lui a prestarcela in cambio della droga».

     

    L'uomo e la ragazza sono stati condannati a cinque anni (lui) e tre anni e otto mesi (lei). Alla fine hanno raccontato la verità. Il dirigente no. È sparito. La moglie, sentita come teste, aveva detto agli investigatori: «Mio marito è spesso in trasferta. Quando è stato rapinato tornava da un viaggio di lavoro». […]

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