LUCA FAZZO asp
Da “L'Ultimo Fucilato” di Luca Fazzo - Mursia Editore
Il comportamento della magistratura italiana nel ventennio fascista non era stato, nel suo complesso, particolarmente coraggioso. L’ossatura dell’apparato giudiziario di inizio secolo, fornito quasi esclusivamente dalle classi medie e alte della società, si era adeguata senza farsi troppo pregare al nuovo corso imposto dal regime.
Non era stata una adesione militante e particolarmente convinta: tanto che nel 1926 Mussolini aveva preferito cautelarsi istituendo il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto da ufficiali delle camicie nere, cui affidare i processi di natura politica potendo contare sulla loro piena ortodossia ai voleri del Duce.
Ma i casi di dissenso esplicito dalla svolta autoritaria imposta dal fascismo erano stati, anche tra i magistrati ordinari, poche decine. I giudici italiani avevano accettato di buon grado sia l’iscrizione forzata al Partito nazionale fascista sia il progressivo mutare delle norme, che dal sistema di ispirazione liberale ereditato dall’Ottocento si evolveva in senso repressivo: il codice penale del ministro fascista Alfredo Rocco, varato nel 1930, segnò il compimento di questa mutazione.
LUCA FAZZO
Di fatto, ad amministrare la giustizia sotto la dittatura era una casta che aveva assimilato in pieno l’impostazione culturale del regime. Il numero di magistrati collusi col fascismo era così alto che, al momento della Liberazione, risultò praticamente impossibile cacciarli tutti.
Anche nei confronti della magistratura, come delle altre burocrazie statali, il governo provvisorio aveva stabilito le procedure per la cosiddetta <epurazione>, cioè l’allontanamento dei funzionari che avevano collaborato col fascismo. In pratica, accadde che la quasi totalità dei magistrati che avevano lavorato senza obiezioni sotto Mussolini continuarono a fare il loro lavoro senza tanti scossoni anche sotto il nuovo Stato. Solo i più compromessi con il fascismo dovettero lasciare il posto, e neanche tutti.
L'ultimo fucilato di luca fazzo a palazzo di giustizia
(...) Anche i due magistrati che ebbero i ruoli principali nel processo a Giovanni Folchi possono essere considerati un esempio della rapida conversione alla democrazia da parte di uomini che avevano svolto quasi tutta la loro carriera sotto il fascismo, ben guardandosi dal mostrarsi inaffidabili, e che dal regime avevano avuto riconoscimenti e avanzamenti di carriera.
A condurre l’inchiesta fu il sostituto procuratore Sebastiano Ventura. Dal suo fascicolo personale custodito presso il ministero della Giustizia, si apprende che Ventura – nato a Gela, in provincia di Caltanissetta, il 23 giugno 1906 – era entrato in magistratura come pretore a Monza nel 1931, in pieno fascismo; nel luglio 1937 era stato promosso pretore di ottavo grado, e nel settembre 1941 promosso al grado settimo.
A celebrare il processo fu invece Luigi Marantonio: nato a Roma nel 1883, era entrato in magistratura nel 1907; nel 1933 era stato nominato <per merito distinto> consigliere di Corte d’appello ed era stato incaricato delle funzioni di presidente di sezione del tribunale di Milano. Anche Marantonio, come Ventura, aveva preso la tessera del Partito nazionale fascista.
Giovanni D'Anzi
Ciò nonostante Marantonio alla fine della guerra si riciclò senza sforzo, tanto che venne nominato presidente di sezione della Corte d’assise straordinaria chiamata a giudicare i crimini fascisti. Fu lui, il 23 maggio 1945, a presiedere la prima udienza della Corte d’assise straordinaria di Milano, appena istituita’’
Singolare, rispetto alle crudeltà di cui si occupavano prevalentemente le udienze della Corte d’assise straordinaria, il processo a Nuto Navarrini, che era stato uno dei più celebri attori di varietà sotto la dittatura.
L’imputato era indubbiamente un fascista convinto, anche se come molti altri cercò nel corso del dibattimento di ridimensionare le proprie responsabilità: ‘’Mi sono iscritto al PNF nell’ottobre 1925 per poter lavorare>, dichiarò durante l’inchiesta: ma vi sono articoli di stampa di fonte non sospetta che raccontano come Navarrini non disdegnasse menare le mani. “
È una vecchia conoscenza per noi il Navarrini, da quando sui palcoscenici milanesi, ed in tempi piuttosto tumultuosi, recitava riviste antibolsceviche tra le urla di certi pubblici rossi, che andavano in bestia, ed i nostri applausi frenetici. Quante volte quegli spettacoli finirono a legnate? E spesse volte, alla parola univa l’azione scendendo in platea, ritornando poi in palcoscenico a recitare nuovamente>. (...)
ronda partigiani-milano-1945
Un rapporto della Questura di Milano del 25 giugno 1945 sosteneva che Navarrini <durante le sue rappresentazioni era solito dilettare il pubblico nazifascista con barzellette e messe in scena che offendevano il vero sentimento politico, specie con la rivista “La Gazzetta del Sorriso” che ha prodotto il risentimento generale della popolazione, trattandosi di lavoro di propaganda essenzialmente nazifascista. Egli impunemente parodiava sulla scena i patrioti e non si faceva riguardo di metterli in ridicolo>.
A venire contestata dal pubblico, secondo la Questura, era stata in particolare la canzone che prendeva di mira i renitenti alla leva e i partigiani. Così il processo si trasformò in una disquisizione quasi letteraria, in cui il significato di ogni scena e di ogni verso veniva spaccato in quattro. Navarrini però si difese negando con forza la paternità della canzone, spiegando di non avere mai fatto il paroliere in vita sua, tantomeno di testi in milanese, e che la canzone l’aveva effettivamente cantata ma non era di suo pugno: bensì del grande compositore Giovanni D’Anzi, l’autore della celebre <O mia bella Madunina>.
SALUTO FASCISTA
D’Anzi – che evidentemente prevedeva meglio di Navarrini come il clima politico fosse prossimo a cambiare assai presto - aveva composto la canzone ma si era ben guardato dal firmarla con il proprio nome, lasciandone volentieri la paternità al bell'attore.
Dichiarò Navarrini: <Avendo già ripetutamente sfruttato il repertorio di canzoni milanesi, commissionai al maestro D’Anzi una canzone nuova sul carattere delle solite, cioè inneggiante alla prossima rinascita della nostra Milano. Il maestro accettò l’incarico dopo alcune tergiversazioni ma mi pregò di mantenerlo assolutamente anonimo come autore in quanto mi vendeva la canzone cedendone tutti i diritti di rappresentazione per la somma di ventimila lire.
onorevoli del partito fascista
Dopo un paio di giorni mi portò la canzone “Le tre lettere” che mi assicurò essere una cannonata e che io non trovai adatta al mio spettacolo e glielo dissi subito. Al che D’Anzi si adombrò dicendomi che sarebbe stata un gran successo come le canzoni precedenti, che in effetti erano state veramente applauditissime nessuna esclusa.
Nel dubbio di sbagliarmi io, sorretto dalla fiducia del D’Anzi, autore celebrato e specializzato nelle canzoni milanesi, l’accettai. La sera che ricevetti un fischio mi preoccupai veramente domandandomi se non avevo sbagliato nell’eseguirla, pentendomi di non aver dato retta al mio primo istinto ed essermi lasciato convincere dal D’Anzi>.