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    TRACCE DI TRACEY EMIN – IL SESSO, LA DROGA, L’AMORE, LA MORTE, LA SOLITUDINE: IL MONDO DELL’ARTISTA INGLESE IN MOSTRA AL “WHITE CUBE” DI LONDRA – RIELLO: "I L PROBLEMA È CHE CI SI TROVA DI FRONTE AL "DILEMMA VAN GOGH". I SUOI LAVORI SONO IMPORTANTI PERCHÉ HANNO UNA QUALITÀ ARTISTICA O PERCHÉ SONO DELLE RELIQUIE DI UNA ENORME (E QUASI LEGGENDARIA) SOFFERENZA? È RILEVANTE LA VICENDA BIOGRAFICA DELL'ARTISTA? O LA SUA PRODUZIONE ARTISTICA?" - VIDEO


     
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    Antonio Riello per Dagospia

     

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    Tracey Emin è nata nel 1963 a Croydon (a sud di Londra) da una famiglia di origini Cipriote ed è cresciuta, con un fratello gemello, a Margate (vicino alla foce del Tamigi). Ha avuto una adolescenza difficile, travagliata da abusi sessuali e difficoltà economiche. Spostatasi a Londra nel 1987 ha frequentato il Royal College of Art. Conosce in quegli anni un giovanissimo Jay Joplin, che pochi anni dopo fonderà la galleria White Cube (che ancora rappresenta il suo lavoro). Nelle interviste lei ha sempre affermato che il suo artista di riferimento è Edward Munch.

     

    Tracey Emin è l'artista che meglio incarna l'epica stagione dei cosiddetti YBA (Young British Artists) degli anni Novanta. Con "Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995" (1995)  presentata alla mostra Sensational (1987) raggiunse la notorietà internazionale. L'opera venne prontamente acquistata da Charles Saatchi. In pratica è una tenda su sui sono diligentemente ricamati i nomi di tutte le persone, a partire dal suo anno di nascita, con cui l'artista ha avuto un rapporto sessuale.

     

    La sua fatica più nota ed apprezzata è probabilmente ancora il famoso "My Bed" (1998), attualmente proprietà della Tate Modern. Un vero e proprio letto sfatto (sporco e quasi distrutto) che racconta, senza parole, la disperazione e la confusione che Tracey stava attraversando in quell'anno a causa di una turbolenta vicenda sentimentale. Una storia dolorosa raccontata con stupefacente parsimonia di mezzi e indiscutibile efficacia. 

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    In un certo senso Tracey è un'artista "confidenziale" che racconta ed esibisce la propria intimità. Trasforma la privacy in qualcosa di pubblico e riconoscibile. Si potrebbe anche dire, usando una espressione italiana, che "programmaticamente non lava i panni sporchi in casa". Le sue opere, quasi delle "confessioni", sono dei racconti con una forte connotazione di gender e di classe sociale: le sue vicissitudini personali diventano (o possono diventare) quelle di tante altre persone. Si parla di violenze sessuali, di dipendenza da droghe, di aborti, di depressione, di tentati suicidi, di solitudine, di distacco.

     

    Il tradizionale connubio "Arte" e "Vita" viene frullato e dosato con generosità nel suo lavoro. E tutto avviene per il tramite di una ricerca artistica piena di originalità, emozione ed energia. Il problema è che in questi casi ci si trova, in un modo o nell'altro, inevitabilmente di fronte al cosiddetto "dilemma Van Gogh". I suoi lavori sono importanti perché hanno una straordinaria qualità artistica (e hanno influenzato le sorti dell'Arte) o ci-piacciono-tanto perché sono delle testimonianze/reliquie di una enorme (e quasi leggendaria) sofferenza?

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    Insomma cosa è davvero rilevante:  la vicenda biografica dell'artista? o la sua produzione artistica? Naturalmente i due aspetti sono strettamente intrecciati (un certo modo di lavorare è frutto anche e soprattutto del vissuto dell'artista) ma non sono esattamente la stessa cosa. La questione è ovviamente aperta e soggetta ad innumerevoli visioni personali. E rimane comunque un fondo di irrisolta ambiguità.

     

    La nuova sede di White Cube si trova nel quartiere di Bermondsey in uno spazio che ha le dimensioni e l'imponenza di un piccolo museo. Il punto focale dell'esposizione è la morte della madre dell'artista (accaduta nel 2016) e il difficile, ma intensissimo, rapporto che la legava madre e figlia. Tutti i lavori presenti sono stati prodotti nei mesi successivi la scomparsa.

     

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    Si inizia con una imponente installazione, "Insomnia" (2018) che occupa la prima grande sala. Le pareti sono completamente tappezzate da foto (in formato 150 x 100 cm) dell'artista immortalata a letto in preda ad attacchi, appunto, di insonnia. Un'esperienza di grande effetto vederle tutte assieme. Ogni foto esiste come esemplare unico (più una "prova d'artista").

     

    Poi una sala, ancora più ampia, contiene una trentina di quadri di dimensioni importanti, dipinti tra il 2017 e il 2018. Che dire? Tutti molto ben fatti, colorati e drammatici. Viene però maliziosamente da pensare: forse un po' "ruffiani",  sembrano quasi-quasi programmati a tavolino. Praticamente tutti venduti. Ci sono anche delle sculture in bronzo di enormi dimensioni (ingombranti ma non straordinarie, sembrano il lavoro di un Henry Moore preso in una giornata fiacca) e una installazione con dei neon "I DON'T BELIEVE IN YOU BUT I BELIEVE IN YOU". Vendute le sculture. Per l'installazione basterà ragionevolmente aspettare solo un po'.

    ANTONIO RIELLO ANTONIO RIELLO

     

    Poi si passa ad una stanza meno grande dove si possono vedere dei bellissimi disegni/schizzi dove la nervosa mano di Tacey sembra essere più forte e più sincera che mai. E' la parte direttamente legata alla mamma e senz'altro la migliore della mostra (dove curiosamente non tutto sembra già venduto....).

     

    In uno spazio a parte viene proiettato un video, a metà tra l'opera d'arte (in vendita) e il documentario (tanto ben girato e montato da diventare quasi noioso...).  Il soggetto? le ceneri della defunta.

    La mostra ha un suo senso e una sua indubbia qualità. Non tutto certo è sullo stesso livello, ma questo è il classico effetto collaterale di tutte le personali.

     

    ANTONIO RIELLO ANTONIO RIELLO

    Una nota di antropologia londinese: l'afflusso di visitatori che si recano a visitare questa mostra è incredibile. La galleria è sempre affollata, è un vero pellegrinaggio. Non ci sono certo solo i soliti "addetti ai lavori" stavolta. Sembra, se si è un po' distratti, di essere da Primark in Oxford Street di sabato. L'artista è diventata evidentemente un asset dell'immaginario collettivo nazionale britannico. Una sorta di rimpiazzo della Lady D. Un altro monumento all'infelicità.

     

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    A Fortnight of Tears (Due Settimane di Lacrime)

    TRACEY EMIN

    White Cube Gallery Bermondsey

    144 – 152 Bermondsey Street 

    Londra SE1 3TQ

    fino al 7 Aprile 2019

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