Da corriere.it
augias
Corrado Augias restituisce la Legion d’onore in segno di protesta per il caso Regeni dopo che il presidente francese Emmanuel Macron ha insignito dello stesso riconoscimento il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi tenendo celata alla stampa francese la notizia.
In una lettera pubblicata su Repubblica, Augias scrive: «Caro direttore, domani lunedì 14 dicembre, andrò all’Ambasciata di Francia per restituire le insegne della Legion d’onore a suo tempo conferitemi. Un gesto nello stesso grave e puramente simbolico, potrei dire sentimentale. Sento di doverlo fare per il profondo legame culturale e affettivo che mi lega alla Francia, terra d’origine della mia famiglia».
AL SISI - MACRON
Dopo aver dato annuncio della sua decisione, il giornalista spiega le motivazioni del suo gesto: «La mia opinione è che il presidente Macron non avrebbe dovuto concedere la Legion d’onore ad un capo di Stato che si è reso oggettivamente complice di efferati criminali.
Lo dico per la memoria dello sventurato Giulio Regeni, ma anche per la Francia, per l’importanza che quel riconoscimento ancora rappresenta dopo più di due secoli dalla sua istituzione». Augias parla più volte di un limite che non dovrebbe essere superato: « Ci sono occasioni in cui anche i capi di Stato dovrebbero attenersi a quella che gli americani chiamano the right thing, la cosa giusta. Credo che il presidente Emmanuel Macron in questo caso abbia fatto una cosa ingiusta».
giulio regeni
OMICIDIO DI GIULIO REGENI
Giovanni Bianconi per corriere.it
La sera in cui il sindacalista-informatore Mohamed Abdallah denunciò Giulio Regeni alla National security, innescando la trappola mortale in cui è caduto il ricercatore italiano, nella stessa struttura c’era anche l’allora ministro degli Interni egiziano, Magdi Abdel Ghaffar.
I racconti di Abdallah, con i relativi accordi per spiare e segnalare ogni successivo movimento di Giulio, erano andati avanti per ore, fino alle 4 del mattino, e al momento di tornare a casa il sindacalista fu fermato, perché dal palazzo stava uscendo proprio Ghaffar: «Nella mia mente ho pensato che la questione era così grave che persino il ministro dell’Interno era venuto di persona. Siamo rimasti bloccati finché il ministro è sceso e se n’è andato».
GHAFFAR
Il ricordo della «spia» è contenuto nel verbale d’interrogatorio del 10 maggio 2016 — tre mesi dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni — all’ex procuratore generale del Cairo Nabil Sadek. La presenza di Ghaffar nel momento in cui il ricercatore italiano entra nel mirino delle forze di sicurezza egiziane potrebbe essere una casuale coincidenza, giacché le sedi di polizia e ministero sono nella stessa struttura. Ma potrebbe anche non esserlo, come pensò il sindacalista. L’orario inusuale suggerisce un sospetto in più su bugie, reticenze e depistaggi delle autorità egiziane sulla tragica fine di Giulio. Ghaffar compreso.
L’8 febbraio 2016 l’ex ministro dichiarò solennemente: «Abbiamo confermato ripetutamente che il signor Regeni non è stato imprigionato da alcuna autorità egiziana. Respingiamo tutte le accuse e le allusioni su un coinvolgimento della sicurezza. Non conoscevamo Regeni». In precedenza — dal 27 gennaio al 2 febbraio, a sequestro in corso — il ministro si negò all’ambasciatore italiano Maurizio Massari; e quando finalmente lo incontrò, ha testimoniato il diplomatico, «risultò evasivo, malgrado la mia insistenza disse ripetutamente di non sapere e di non disporre di informazioni».
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Oggi sappiamo che Ghaffar mentiva, o quantomeno fu indotto a mentire dai suoi apparati, perché già dal novembre-dicembre 2015 Giulio venne «attenzionato» dalla National security. I controlli nei suoi confronti scattarono all’indomani della denuncia, come racconta lo stesso Abdallah.
Il rappresentante dei venditori ambulanti aveva parlato di Giulio al «dottor Foda», direttore del Centro egiziano per i diritti dei lavoratori, che lo aveva indirizzato al colonnello della Ns Uhsam Helmi, uno di quattro indagati che la Procura di Roma vuole processare. «Hosam mi ha chiesto quali fossero i nostri problemi di ambulanti — ha riferito al magistrato —, ha chiesto a Sharif (il maggiore Sharif, accusato anche di omicidio, ndr) di farne un elenco per risolverli, e mi ha detto di seguire con lui la questione Regeni...
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Il giorno seguente sono stato contattato da Sharif, voleva sapere se mi dovevo incontrare con Giulio, io gli ho detto sì e che volevo andare insieme a lui a Masr Al Gadida (un mercato, ndr). Quando Sharif mi ha chiesto perché gli ho detto che volevo sapere con chi aveva rapporti ed egli rispose che facevo bene».
A indirizzare Giulio da Abdallah era stata la coordinatrice di un Centro per i diritti economici e sociali, Hoda Kamel Hussein, individuata da Rabab Ai-Mahdi, la tutor indicata dalla professoressa di Cambridge Maha Abdelrahamn, nonostante le perplessità di Regeni dovuti al fatto che Al-Madi fosse «un’attivista che avrebbe potuto sovraesporlo».
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La catena dei rapporti che ha portato Giulio nella «stanza numero 13» della National security dove fu visto incatenato e torturato, è stata puntigliosamente ricostruita dall’indagine della Procura di Roma; l’anello centrale resta Abdallah, che nei primi due interrogatori alla National security, a febbraio e aprile 2016, disse di aver incontrato Regeni soltanto una volta, senza aggiungere altro.
Solo il 10 maggio, di fronte al procuratore Sadeq e dopo il richiamo a Roma dell’ambasciatore italiano, ha raccontato almeno una parte di verità; «riferendo di essere stato indotto dalla National security, e in particolare dal maggiore Sharif, a rilasciare false dichiarazioni», accusano i magistrati romani. I quali ritengono attendibile Abdallah per i fatti che sono state riscontrati da dati oggettivi, come i tabulati telefonici da cui sono emersi i numerosi contatti tra lui e Sharif.
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Maha Abdel Raman regeni Maha Abdel Raman