Gianni Mura per “il Venerdì - la Repubblica”
mariangela melato lina wertmuller giancarlo giannini
Il titolo, Tutto su Mariangela, non è smentito dal testo. Se non tutto, quasi. Michele Sancisi ha fatto un gran lavoro di ricerca, riempiendo alcuni spazi grigi nella vita della Melato. Si sapeva che aveva studiato al Trotter, scuola per bambini dal carattere difficile: lei era chiusissima, non parlava con nessuno.
Ma perché questo mutismo? Perché soffriva di una malattia (dermatite atopica): la pelle si screpolava e sanguinava e le tracce sul corpo si potevano nascondere, quelle sul viso no. Si sapeva del forte legame con il padre Adolfo, vigile urbano, nato a Trieste, internato a Buchenwald, cognome Hönig italianizzato in periodo fascista («un David Niven in divisa da ghisa»). Nei moduli di richiesta di mutui al Comune il padre è definito «persona povera e di buona condotta». I mutui, scrive il padre, servono anche a curare la figlia «continuamente ammalata».
michele sancisi melato cover
Già la nascita podalica aveva fatto temere per Mariangela. La madre Lina si stende sul tavolo da cucito (faceva la sarta), ma la testa non vuol saperne di uscire. Corsa in ambulanza al vicino Fatebenefratelli. Mariangela nasce alle 5.30 del 19 settembre 1941, Sole e ascendente Vergine. Da cui: carattere rigoroso e disciplinato, versatile e attento a ogni dettaglio. Per chi ci crede. Altra cosa ignorata: la nascita (e morte) di un bambino, battezzato Giorgio Melato nel 1944, durante la prigionia in Germania di Adolfo. Di questo fratellastro Mariangela nelle interviste non ha mai parlato, ma si può intuire quanto non fosse serena l' atmosfera in quella casa di ringhiera vicina al palazzo del Corrierone. E lei che si rifiutava di mangiare, si feriva e gridava alla madre «tutta colpa tua». No, lei raccontava dell' orgogliosa felicità di quando, la domenica, a braccetto col padre in divisa andava ai giardini di piazza Cavour.
melato
La via di fuga, verso tutto, è Brera, il quartiere dei nottambuli, dei pittori, dei fotografi, dei giornalisti. Il bar Giamaica, dove la ragazzina Mariangela si presenta truccata da esistenzialista, alla Juliette Gréco. Ha due soprannomi: "Occhio", per il trucco ma anche la distanza tra gli occhi («una picassa», la definirà Sophia Loren), e "Satchmo", per il vocione che ricorda Louis Armstrong. «Penso con gratitudine a quel periodo. Nessuno ha approfittato della mia ingenuità». Dentro le era rimasto il ricordo delle case di ringhiera, la sua e quelle del "Nost Milan", anche dopo 40 anni di Roma. «Sono legata a una città scomparsa, infestata da gente finta, povera di cuore, nemica della cultura».
Con lei si poteva parlare di tutto, tutto era tranne che una diva. Per lavoro la conobbi nel '75: era Olimpia nell' Orlando furioso di Ronconi portato in tv, e l' Italia dei teleschermi s' innamorò di lei, così diversa dalla sciurèta Raffaella Pavoni Lanzetti travolta da un insolito destino e presa a sberle da Giannini nell' azzurro mare della Wertmüller. Bella e brava anche in quel film del '74.
MELATO
Le ho voluto bene fin dalla prima intervista, fissata alle 10 (orario insolito per quelli dello spettacolo). Lei che apre la porta, struccata, in tuta da ginnastica, e con un sorriso che riempie il pianerottolo dice: «Per prima cosa, ci facciamo un bel cafferino?». Seduti al tavolo della cucina, in mezz' ora passati dal lei al tu. L' ho ammirata, come attrice e come persona. È stata la più brava, dal dopoguerra a oggi.
La più versatile: cinema e tv, canzone e ballo, commedie musicali. In ruoli diversissimi: da oca ricca, da puttana, da parrucchiera, da poliziotta, da avvocato. Da Brecht a Eduardo, da Pirandello (indimenticabile l' Ersilia Drei di Vestire gli ignudi) a Fo. Coerente nelle scelte: lavorare anche gratis per un regista esordiente e in un ruolo in cui credeva, rifiutare offerte ricchissime (da Mediaset, per esempio) se non ci credeva.
Le piacevano le tavolate con gli amici, i giochi di memoria, gli indovinelli.
MARIANGELA MELATO - LUCIANO DE CRESCENZO - RENZO ARBORE
Sempre dalla parte delle donne, senza cortei, sempre di sinistra, senza impugnare la bandiera rossa. Nella vita, intendo, non solo a teatro o nei film. Era per l' abolizione della Giornata della donna: «Ci vorrebbe la giornata dell' uomo. È lui quello che ha più problemi, più incrostature, più tabù». Era fiera della sua indipendenza: «Non credo che la donna si realizzi solo come moglie e madre». Renzo Arbore, l' uomo della sua vita che le è stato vicino fino all' ultimo, l' ha ricordata così: «Grande valore, modestia, signorilità, cultura, intelligenza, ironia, ma soprattutto grazia e nobiltà d' animo fuori dal comune. Ha fatto di me un uomo migliore».
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Un 'altra storia, lunga e tormentata, fu con Giorgio Gaber. Nel libro se ne parla.
Storia risaputa nell' ambiente, ma quasi sempre non evocata, forse perché, a differenza di Arbore, Gaber aveva famiglia.
Negli ultimi tempi, quando il dolore glielo permetteva, Mariangela andava in scena con un lavoro di Marguerite Duras intitolato Il dolore. È il lungo monologo di una donna che aspetta il ritorno del marito, internato a Dachau. «Ho sempre evitato i lunghi monologhi, roba da prime donne, ma c' è sempre da imparare. E poi, di fronte ai coglioni negazionisti, è giusto ricordare cos' è stata la Shoah».
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Nel giugno 2009 le avvisaglie del male, tumore al pancreas, forse il peggiore. Tre mesi di vita, dicono in un ospedale romano. Saranno invece più di tre anni, con tre interventi chirurgici. Nel libro di Sancisi le ultime due foto: la rosa bianca creata per Mariangela a Pistoia e lei abbracciata al suo medico curante, lei che sorride come se stesse bene, e in questo sorriso c' è tutta la sua meravigliosa allegria, tutta la sua forza e tutto il nostro rimpianto.
gianni mura
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