Alberto Mattioli per la Stampa
conte si sbraccia
Tutti presenti, tranne la polemica. Gran soddisfazione al Meeting di Rimini: mettere insieme Letta, Conte, Salvini, Tajani, Rosato e Lupi, più Meloni in fluttuante collegamento video, è un colpaccio mediatico. Tanto più che il dibattito è una sagra di "prime volte": prima volta di Conte al Meeting (anche se sbaglia e dice che si tratta del debutto tout court di un grillino, e non è vero), prima volta di Conte e Salvini insieme in pubblico dopo la fine traumatica del loro governo, eccetera.
Letta ringrazia perché lo invitavano «anche quando non contavo niente e lavoravo all'università con i miei studenti». Non si capisce se sia l'ultimo cazzeggio estivo o il primo dibattito dell'autunno politicamente caldo che si annuncia. Di certo, tutti esibiscono un insolito fair play, più da Camera dei Lord che da talk televisivo all'ultimo strillo, con apprezzamenti per l'organizzazione, in effetti di implacabile efficienza tecnologica (si fa tutto con un'app, sono ciellini 4.0), nessuno che si sovrappone agli altri, Salvini che assicura di essere d'accordo con Letta sull'Afghanistan e Rosato con Meloni sul ruolo dei partiti: miracolo a Rimini.
ettore rosato giuseppe conte antonio tajani enrico letta matteo salvini maurizio lupi - meeting rimini
Del resto, l'officiante Michele Brambilla l'aveva premesso, che la gente è stanca della politica urlata, mentre Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione Meeting, ricordava che il valore della politica non può essere sovrastato dal frastuono della polemichetta quotidiana. Che poi nelle dichiarazioni a margine torna subito, con Letta che dice che rispetto a questa destra sovranista Berlusconi «era rose e fiori» e giura che mai più farà un governo con Salvini, il quale torna puntualmente ad attaccare Lamorgese. Tre i punti all'ordine del giorno: Afghanistan, ruolo dei partiti e priorità post Covid. E qui più che un tutti contro tutti il risultato è un tutti contro uno, che curiosamente non è Meloni, l'unica all'opposizione, ma Conte.
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Perché nell'unanimismo quasi generale steccano due temi: i taleban e il reddito di cittadinanza. Sui nuovi padroni dell'Afghanistan con cui l'avvocato del popolo vorrebbe dialogare Salvini carica: «Io il dialogo con i terroristi islamici non lo concepisco per principio» (segue applauso), idem Meloni che aggiunge al gruppo degli infrequentabili anche l'Arabia Saudita, omaggio a Renzi, mentre Tajani informa che si è informato «non con i generaloni ma con i soldati sul campo» che gli hanno detto che della parola dei taleban non ci si può fidare.
Invece Conte insiste con una delle sue tipiche acrobazie verbali: dialogare con i talebani non significa legittimarli o riconoscerli ma, poiché non si possono abbandonare gli afghani al loro destino, «astringerli (sic) al dialogo». Altro argomento caldo: il reddito di cittadinanza. Per Meloni è «devastante», per Tajani va abolito, per Salvini è addirittura l'occasione di un inconsueto mea culpa, visto che in fin dei conti nel governo che l'ha istituto c'era anche lui: «Tornassi indietro, non lo rifarei.
Crea soltanto lavoro nero e disoccupazione. Ho chiesto a Draghi di rivederlo e comunque oggi nasce una maggioranza per farlo». E qui Conte inizia a sbracciarsi anche a costo di gualcire l'impeccabile completo blu (con pochette) spiegando poi che lui del reddito è orgoglioso, che non va abolito, semmai riformato per «reprimere i pochi abusi» e che anche Draghi è d'accordo che questo «paracadute» ci vuole.
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Sul funzionamento del malandato sistema istituzionale, da segnalare la presa di posizione di Letta per le preferenze e contro il trasformismo dei parlamentari («Troviamo forma e formule per limitarlo ed applicare finalmente l'articolo 49 della Costituzione», quello sui partiti) e perché Draghi resti premier fino al termine della legislatura. Meloni vuole il presidenzialismo e dei partiti «pesanti», con «le sedi sul territorio e non davanti allo schermo di un computer» (altra frecciata al M5s), idem Salvini che chiede di mandare in Parlamento soltanto chi abbia già avuto un'esperienza amministrativa e di limitare il potere «che oggi in Italia decide sugli altri: quello giudiziario».
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Conte invece assicura che il suo Movimento «terrà alta l'asticella dell'etica», che «farà politica con il sorriso» e perfino, tesi spericolata, che il M5s «ha contribuito a ridare credibilità ai partiti». Nell'applausometro, alla fine vincono Lupi, qui non in rappresentanza del suo partitino ma dell'Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, tema carissimo al cuore ciellino, e poi Meloni, Salvini e Tajani, insomma il centrodestra. Del resto, vincono facile quando chiedono libertà educativa (leggi: soldi alle scuole private), provvidenze per le famiglie e investimenti sulla natalità. E qui Salvini diventa addirittura lirico: «Quando morirò lascerò un trilocale a Milano, un po' di processi aperti, qualche buona opera e i miei due figli, la cosa più bella che il Dio mi abbia dato». Amen.
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