Matteo Persivale per il Corriere.it
Mel brooks
La voce, inconfondibile, arriva stentorea dall’altra parte dell’oceano, in un italiano dalla pronuncia lenta ma sicura: «Pronto? Parla Mel Brooks, buonasera». Il resto dell’intervista avverrà in inglese ma Brooks ci tiene a sottolineare che «mi sento uno di voi. Mia moglie Anne Bancroft era italiana, aveva adottato un nome d’arte ma in realtà si chiamava Anna Maria Italiano.
Io di nome facevo Melvin Kaminsky, la mia famiglia è arrivata in America da Minsk, che oggi è in Bielorussia, ma ho imparato a amare il cinema grazie ai vostri grandi registi: De Sica, Fellini, Rossellini. La mia città preferita al mondo è Venezia e il mio cibo preferito - a me piace mangiare bene, anche in questo sono uno di voi - sono le lasagne.
Lo sa che quando abbiamo realizzato l’edizione speciale per il quarantennale di Frankenstein Junior i due Paesi nei quali ha incassato di più, con distacco su tutti gli altri, sono stati Usa e Italia? Un mio film al quale voglio molto bene, Che vita da cani!, che in America non è stato particolarmente fortunato, da voi invece è stato un successone: rimase per sei settimane in testa al botteghino».
Mel Brooks tutto su di me
Ha anche condotto Striscia la notizia, nel 1994.
«Quante risate col mio amico Ezio Greggio! Ci sentiamo tuttora, spesso. Gli sono molto affezionato. Come fa lei a ricordarsi di Striscia dopo tutti questi anni?».
Eravamo tutti incollati davanti alla tv: era difficile, quando lei traduceva le parole italiane in tedesco, non cadere dal divano per le risate.
«Ecco, per me la comicità è questo: idealmente, quando va in scena un comico il pubblico dovrebbe sbellicarsi. Altrimenti, se il pubblico non ride in quel modo lì, sei una persona spiritosa, non un comico. Sono due cose diverse. Far ridere è complicato».
Qual è il segreto? Lei fa sbellicare il pubblico da più di settant’anni.
«Bella domanda: la comicità deve avere un motore, deve esserci qualcosa che spinge avanti la storia. Che sia una barzelletta, un aneddoto, uno sketch, la puntata di un telefilm, un film: non importa. Ci vuole un motore. Se c’è una costante in settant’anni di lavoro che ho passato nella commedia, direi che il segreto è questo. Sulla questione della longevità invece, ovviamente il segreto è un altro».
Mel Brooks sul set di Frankestein Junior
Quale?
«Non morire».
I suoi sketch degli anni ‘50 e ‘60 con Carl Reiner, quelli del “2000 year old man”, l’uomo vecchio duemila anni, sono conservati alla Biblioteca del Congresso di Washington tra i tesori della letteratura americana, accanto ai libri di Mark Twain: fanno parte della cultura americana del Novecento, eppure sono nati quasi per scherzo. Come si fa a creare dei lavori che sono per definizione leggeri e a farli diventare immortali?
«Difficile dirlo. Comincia così: qualcosa ti rimane in mente. Basta la scintilla di un’idea, una suggestione. Ti resta proprio appiccicata. Ci pensi, ci ripensi. Cosa chiederesti a un uomo vecchio duemila anni? E cosa risponderebbe lui? Carl faceva le domande, io rispondevo, improvvisando. In ufficio, a cena, alle feste. Lui registrava, riascoltavamo, tagliavamo e incollavamo.
mel brooks greggio 5
Non sapevamo dove saremmo arrivati, l’idea di un successo così grande non ci sfiorava. Nella writer’s room, l’ufficio degli autori, alla radio e alla tv, si parlava a oltranza. Lavorai anche con il giovane Woody Allen: facevamo ogni sera una lunga camminata insieme, verso casa, per schiarirci le idee. Da un’osservazione a volte nasce uno sketch, specie se hai con te qualcuno col talento di Woody. Funziona così: tu fai una cosa che ti sembra divertente, e a volte quella cosa diventa significativa, ma tu non c’entri già più. Non sono sicuro che un pittore sappia che quello che sta dipingendo sulla tela diventerà immortale. Però so che Carl era il mio migliore amico, oltre a essere un genio della comicità. È morto l’anno scorso. Mi manca moltissimo».
Mel Brooks e Carl Reiner
Carl Reiner è uno dei protagonisti - insieme a tutte le persone famose e anche non famose che ha incontrato attraverso la sua carriera straordinaria - del suo libro: Tutto su di me! che esce il 2 dicembre in contemporanea in tutto il mondo, pubblicato in Italia da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi. Il giovane Holden del romanzo di Salinger ci avverte: se scrivi un libro finisci per sentire la mancanza di tutti. È stato difficile per lei scriverlo fino in fondo?
«Sì e no. Da una parte, certo, ripensi a persone care che non ci sono più. Ma scrivendo, in un certo senso, le riporti in vita. E poi non è che non avessi mai pensato di scrivere le memorie, è che non ho mai avuto tempo finora. Però questa pandemia, e la distanza forzata dai miei figli, dai miei nipoti, dai miei collaboratori... un’occasione per darmi da fare. Sono a un buon punto della mia carriera, ormai - di argomenti ne ho».
Mel Brooks Oscar
Il suo lavoro in tv e al cinema è famosissimo, ma la storia della sua giovinezza, e della guerra, e dei suoi inizi nel mondo dello spettacolo sono sorprendenti: racconta di aver lavorato come sminatore, che già di per sé è una cosa terrificante, di aver schivato per poche settimane l’offensiva delle Ardenne. Ma un tema ricorrente è quello del rancio.
«Altroché: la mamma, rimasta vedova quando avevo due anni, non aveva molti soldi ma ci ha sempre fatto mangiare in abbondanza, quando i miei fratelli maggiori mi davano qualche spicciolo compravo un panino perché avevo sempre fame, poi andavo al cinema; quando sono arrivato nell’esercito nel 1944 ho cercato subito di capire la qualità del rancio.
Niente di che, ma ce n’era a volontà, e mi sono tranquillizzato. Lo sminamento non è divertente, ma finii a Saarbrücken dove con un gruppo di commilitoni riuscimmo a schivare il rancio e procurarci cibo locale: zuppa di cipolle, wurstel, crauti, insalata di patate, pane francese. Che bellezza».
Frankestein Junior
C’è anche un capitolo dedicato ai ristoranti cinesi di New York: lì si riuniva il suo club di amici del martedì, la Chinese Gourmet Society.
«C’era Joe Heller, l’autore di Comma-22, c’era Mario Puzo che scrisse Il Padrino, c’era un altro scrittore, Georgie Mandel, Speed Vogel che era scultore, c’era Ngoot Lee grande designer di mobili ma soprattutto conosceva i migliori locali di Chinatown. Quante risate, e che mangiate».
Joseph Heller è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento: durante quelle cene parlava del suo lavoro?
«Joe? Ma no! Joe era un genio, per noi però era solo one of the guys, uno dei ragazzi, e tra l’altro il più divertente di tutti. Joe faceva ridere, ma davvero. Mario è per tutto il mondo il creatore della saga del Padrino, ma per noi era Mario il mangione. Mai più visto in vita mia qualcuno che mangiasse quanto lui.
mel brooks greggio
Scriveva di notte, e anche se a cena si era rimpinzato a dovere a un certo punto gli veniva fame, scendeva al piano di sotto, in cucina, apriva il frigo e si preparava un panino colossale: affettati di ogni genere, olive, sottaceti, uno sfilatino lungo come un braccio, una cosa mostruosa. Una notte, nell’oscurità, scivolò dalle scale. Fece un capitombolo e si ruppe una gamba. Da una parte c’era il maxi panino, dall’altra il telefono per chiamare l’ambulanza. Scelse il panino. Dopo, arrancò fino al telefono e si fece portare in ospedale, ma a stomaco pieno. Il mio caro Mario. Era uno spettacolo vederlo a tavola».
Mel Brooks con Alfred Hitchcock
La tavola è un tema ricorrente: gli appuntamenti da Chasen’s a Los Angeles con Alfred Hitchcock che era un grande ammiratore di Frankenstein Junior, i pranzi quotidiani alla mensa dello studio cinematografico con Cary Grant.
«Se pensa che a me piaccia mangiare posso dirle che a tavola non sono nessuno rispetto a Hitchcock: forchetta formidabile, gentleman splendido. Gli chiesi aiuto quando lavoravo a Alta Tensione che era una parodia del suo lavoro, e lui fu gentilissimo, mi prese sotto la sua ala. Grande persona. Che tipo era Cary? Era come se lo immagina: elegantissimo, classe pura, aveva un fascino unico al mondo. Portò in anteprima a Londra una copia del disco di Carl e mio, quello sull’uomo vecchio duemila anni, alla Regina madre.
Rise molto, riferì Cary. Io pensai: se fa ridere i miei amici ebrei a Brooklyn e fa ridere anche la Regina madre, siamo a cavallo. Amo anche le umili tavole calde americane: solo una volta sudai freddo, durante le riprese di Per favore non toccate le vecchiette, quando portai Kenneth Mars - che interpretava il commediografo pazzo - in una tavola calda ebraica del Lower East Side. Entrammo, e la tensione si tagliava con il coltello. Mi resi conto che era ancora in costume, e al braccio portava la fascia con la svastica del suo personaggio, un demente nazista. Ken, uomo tanto mite quanto come attore era di straordinaria inventiva, era desolato. Povero Ken: se la tolse, quella fascia, e mangiammo sereni».
Mel Brooks con Dom DeLouise e Marty Feldman
Quando ha scoperto il cibo italiano?
«Fu una rivelazione: la mia povera mamma prendeva gli spaghetti, li metteva in una teglia, ci versava sopra del ketchup, e metteva tutto nel forno. Cosa ne sapeva, poverina: era russa. Così io da piccolo pensavo che la cucina italiana fosse quella cosa lì.
Quando scoprii come erano davvero gli spaghetti al sugo fu una rivelazione: non le nascondo che mi commossi profondamente, mi misi a piangere. Il cibo italiano è un capolavoro. Poi certo c’è un sacco di cucina ottima, la francese, quella cinese, i delicatessen ebraici stanno scomparendo eppure sono meravigliosi. Ma l’Italia è l’Italia. Ogni tanto cucino la pasta e fasuola che mi faceva sempre mia moglie Anne, mai mangiata così buona come la preparava lei che era una cuoca eccezionale. Conosco il nome in dialetto: in italiano si dice pasta e fagioli, se non sbaglio. Il trucco è non mettere troppi fagioli, e farli amalgamare bene: è un piatto povero, a me piacciono i piatti poveri, sono uno del popolo».
Mel Brooks con Barack Obama
Nel libro lei spiega che anche se per le sue origini viene quasi sempre definito come un rappresentante dello humour ebraico lei si vede di più come esponente dello humour newyorchese.
«Sì, sono due cose diverse. La mia estrazione è quella, certamente anche se non sono mai stato molto religioso la cultura è quella, la sensibilità è quella ebraica. E quando ho cominciato io la tv era una cosa un po’ di serie B, e si riempì di ebrei di New York come me cresciuti con gli spettacoli di vaudeville.
C’era Sid Caesar, il mio primo capo, il re assoluto, io rispetto a lui sono solo un giullare. C’era il mio amico Mel Tolkin che ha fatto scoprire a me, povero autodidatta, i grandi russi, i libri di Gogol, l’autore che mi ha segnato e che sento più vicino. Ma l’ebraicità nel mio lavoro? C’è sicuramente materiale, nel corso della mia carriera, che può essere inserito nel filone dello humour ebraico ma si tratta quasi sempre di humour newyorchese: c’è un elemento di aggressione, abrasivo, tipico di New York. Anche Lenny Bruce era ebreo, certo, ma quella comicità lì è comicità newyorchese, pura aggressione».
Anne Bancroft e Mel Brooks
«Io da ragazzo ero arrabbiato perché mio padre è morto di tubercolosi quando ero piccolissimo, mi è mancato il suo calore, non ho potuto fargli vedere che ce l’avevo fatta - sarebbe stato tanto orgoglioso. Non è giusto.
Una cosa importante della comicità newyorchese è che deve sempre esserci un nocciolo di verità, scrivi tutte le battute che vuoi ma dentro hai bisogno della verità che regge tutto. L’avidità e l’antisemitismo in Per favore non toccate le vecchiette; il razzismo in Mezzogiorno e mezzo di fuoco, il preferito dal mio amico Obama che sgattaiolò nel cinema di nascosto perché era troppo giovane e il film era vietato. Sa cosa mi manca di New York, dopo decenni passati a Los Angeles? A New York si vive a tamburo battente, qui c’è il sole, tutti sono calmi, apparentemente sereni. La loro calma mi mette agitazione».
dick van dyke, carl reiner, mel brooks
Lei ha preso Broadway, il western, gli horror in bianco e nero della Hollywood dei tempi d’oro, i film muti, quelli di James Bond, Guerre Stellari, Dracula e Robin Hood e li ha fatti tutti a pezzi. Ridicolizzati.
«È lo spirito di New York: non farsi impressionare mai da nulla, essere sempre scettici. Farsi sempre beffe dei potenti, di quelli che si credono importanti. C’è un però grande come una casa. Bisogna sempre lasciare uno spazio a un elemento di umanità.
Quando Gene Wilder e Zero Mostel - ebrei come i loro personaggi - camminano per la strada con le fasce naziste al braccio, che hanno indossato per far piacere al commediografo, si fermano a buttarle in un cestino. Gene fa una pausa, poi ci sputa sopra. È uno dei momenti preferiti di tutti i miei film. C’è un limite anche all’avidità, all’abiezione, alla mancanza di scrupoli e vergogna: quel limite è l’umanità».
MEL BROOKS ANNE BANCROFT 2
In questa fase storica molti comici sono preoccupati dalla cosiddetta cancel culture, se tutto diventa offensivo per qualcuno voi provocatori come farete?
«È una questione delicata, ma sicuramente oggi molti dei miei film non verrebbero mai fatti, scatenerebbero proteste e grattacapi per i produttori. Meno male che li ho girati allora. Certo oggi il mondo è leggermente troppo politicamente corretto, la comicità deve sempre scuotere un po’ il pubblico».
Chi la fa ridere oggi?
mel brooks e gene wilder
«Ah no, ho imparato a non rispondere, per delicatezza: sono tanti, e siccome non posso citarli tutti ogni volta poi qualcuno ci resta male se non faccio il suo nome».
Ne nomini almeno uno...
«Uno no: un collettivo. I ragazzi di Saturday Night Live ».
Come produttore ha lanciato la carriera di David Lynch.
«Il mio David. Uomo meraviglioso, artista puro. Lo scelsi che era un ragazzo per Elephant Man. I finanziatori erano allibiti, aveva girato solo un film horror da studente. “È matto da legare!”, mi dissero. Appunto, risposi, è l’uomo ideale per questo film. Risultato: capolavoro assoluto, nomination all’Oscar a pioggia.
David è l’artista più umile che abbia conosciuto. Di recente mi ha detto: sai Mel, sono solo un lavoratore nel campo dell’immaginazione. Mi ha anche detto che abbiamo anime simili: che complimento. David al cinema e in tv ci racconta verità eterne».
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Lei ha vinto Oscar (cinema), Tony (teatro), Grammy (musica), Emmy (tv). Siete in pochissimi nella storia dell’intrattenimento. Obama le ha messo al collo la medaglia riservata ai più grandi artisti d’America e le ha riservato un discorso diventato famoso.
«Sono solo un tizio di Brooklyn che ha fatto ridere la gente, un giullare. Mia moglie Anne era quella davvero di talento. Io sarò parziale, ma una come lei - che vinse letteralmente tutti i premi di recitazione, cinema e teatro - non ci sarà più.
Quando l’ho persa nel 2005, a causa di una lunga malattia, ho capito che sarebbe cambiato tutto... 45 anni insieme. Il lavoro è una cura per la depressione - fino a un certo punto. L’attrice Anne Bancroft la conoscete.
MEL BROOKS ANNE BANCROFT
La donna? Era all’apice della fama quando al nostro Max - Max come mio padre, ma per oggi chiamiamolo Massimiliano visto che è per metà italiano - venne diagnosticata la dislessia, che allora purtroppo non era stata studiata e compresa come lo è oggi. Anne non fece una piega, chiamò il suo agente e disse: faccio una pausa, mesi o anni, vedremo, non è importante. Lesse ogni libro mai scritto sulla dislessia, arruolò persone che lessero e registrarono su nastro magnetico tutti i libri di scuola che Max non riusciva a leggere sulla carta per farglieli ascoltare, trovò specialisti, insegnanti di supporto. Max si è diplomato al liceo come tutti gli altri, e ha finito l’università. Oggi fa lo scrittore di best-seller e lo sceneggiatore. Ecco, questa era Anne Bancroft».
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Anna Italiano.
«Giusto, Anna Italiano».
david lynch Mel Brooks con Alfred Hitchcock MARIO PUZO orgasmatron woody allen 1 MARIO PUZO - IL PADRINO - THE GODFATHER
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