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    LE MASCHERINE PROTEGGONO NOI MA DISTRUGGONO L’AMBIENTE – COME SE NON BASTASSERO GLI INCIVILI CHE LE GETTANO A TERRA, UN CARGO HA PERSO 40 CONTAINER CON I PREZIOSI ‘DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE’ IN MARE APERTO IN AUSTRALIA – RISULTATO? LE SPIAGGE DI SYDNEY SONO COSPARSE DI MASCHERINE. L’ALLARME DEGLI AMBIENTALISTI: SONO ALTAMENTE INQUINANTI E… - VIDEO


     
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    Luca Zanini per www.corriere.it

     

    il cargo apl england perde container 1 il cargo apl england perde container 1

    Ci si è messa anche la sfortuna, perché non bastava l’inciviltà dell’Uomo. Dopo l’allarme per le migliaia di mascherine finite sulle spiagge a Sud di Hong Kong dopo la prima ondata pandemica da Covid-19, da Oriente arriva la notizia di un singolare incidente: alcune famose spiagge sulla costa orientale dell’Australia sono state letteralmente coperte da mascherine chirurgiche nuove.

     

    Due giorni fa gli abitanti di Sydney si sono svegliati con il litorale cosparso di dispostivi medici: si tratta di materiale che una settimana fa era in viaggio tra la Cina e Melbourne, quando il cargo «APL England» che lo trasportava è incappato in una tempesta al largo del Nuovo Galles del Sud ed ha perso ben 40 container in mare aperto. Alcuni container portavano elettrodomestici e materiali da costruzione, che sono affondati. Ma i dispostivi medici - così come migliaia di scatole di plastica — sono rimasti in superficie e, in pochi giorni, sono stati trasportati dalla corrente fino alla costa Est, nello stato australiano di Victoria.

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    Un cargo in viaggio tra la Cina e Melbourne ha perso 40 container nel mare in tempesta: i dispositivi medici sono finiti sulle coste a Nord di Sydney. La corsa dei volontari per raccoglierle. Solo due mesi fa l’allarme per le mascherine usate trovate su un’isoletta nel Mar della Cina

     

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    Le associazioni ambientaliste sono accorse a raccogliere il materiale e ripulire i litorali in almeno quattro aree (vedi la mappa qui sotto). Aliy Potts, che risiede nella zona, ha trascorso ore a recuperare mascherine e fotografare il disastro (vedi il suo profilo Instagram): «L’intera spiaggia di Coogee sembrava una discarica — racconta —. C’erano migliaia di mascherine sparse e tantissimi pacchi di plastica ancora chiusi. Con altri due vicini ci siamo armati di guanti e abbiamo cominciato a ripulire. Poi sono arrivati gruppi di volontari ad aiutarci».

     

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    Gli ufficiali della Australian Maritime Safety Authority hanno ricevuto segnalazioni di mascherine chirurgiche sparse tra la battigia e le acque vicine a rive da Magenta Beach a The Entrance, a Nord di Sydney.Il danno ecologico è incalcolabile. Così come quello provocato da chi non smaltisce guanti e mascherine nel modo corretto, in tutto il mondo. Il caso di Hong Kong ha fatto scuola e molte amministrazioni si stanno attivando affinché il ciclo della raccolta differenziata dei rifiuti diventi più efficente e per educare i cittadini a gettare i dispositivi medici usati nei giusti contenitori.

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    A Sud di Hong Kong, ricercatori hanno scoperto centinaia di face mask traportate dal mare. Solo la Cina ne produce 200 milioni al giorno; gli Usa ne vogliono 3,5 miliardi, 1,2 l’ Italia (130 milioni al mese). Per la maggior parte sono in poliestere o polipropilene: altamente inquinanti

     

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    La «APL England» mentre perde i 40 container al largo dello Stato di Victoria, Australia orientale: molti contenevano dispositivi medici che sono finiti sulle spiagge australiane (foto Australian Maritime Safety Authority)  La «APL England» mentre perde i 40 container al largo dello Stato di Victoria, Australia orientale: molti contenevano dispositivi medici che sono finiti sulle spiagge australiane (foto Australian Maritime Safety Authority)

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    Miliardi di mascherine ed altri dispositivi medici utilizzati durante l’emergenza Covid-19 e nel post pandemia minacciano l’equilibrio ambientale del Pianeta e non soltanto degli Oceani.

     

    L’aumento esponenziale nella produzione e nel consumo (hanno una scadenza e vanno cambiate spesso) delle maschere chirurgiche in tutto il mondo impone politiche serie per il loro smaltimento. Perché — come spiega anche il ministero della Salute italiano nel prontuario diffuso a inizio aprile — le mascherine non sono un prodotto riciclabile. Non per il momento almeno. In Italia poche amministrazioni hanno pensato ad una raccolta apposita: neppure per le mascherine dei soggetti positivi al coronavirus che si curano in casa. La loro carica virale imporrebbe uno smaltimento speciale, come per i rifiuti ospedalieri, mentre il ministero dice soltanto di metterle nell’indifferenziata «chiudendo tali rifiuti in due o tre sacchetti, uno dentro l’altro».

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    Sono davvero un numero incalcolabile le mascherine che da qui a dicembre circoleranno nel mondo. Soltanto nell’attuale Fase 2, con oltre metà della popolazione che le utilizza l’italia avrebbe bisogno di almeno 130 milioni di pezzi al mese: 90 milioni di maschere monouso (quelle definite «chirurgiche», in realtà le più semplici, in tessuto non tessuto) e fra 30 e 40 milioni al mese del modello FFP2, che protegge di più e viene usato negli ospedali. Il fabbisogno pre estivo, calcolava a inizio aprile il commissario all’emergenza Arcuri, ammonterebbe a 650 milioni di mascherine. Tenendo conto che, come spiega Milena Gabanelli nello speciale di Dataroom sul Corriere, le mascherine chirurgiche sono monouso e non ci sono procedure, scientificamente validate, per la loro «disinfezione» (mentre i filtranti facciali FFP1, FFP 2 e FFP 3 possono essere riusabili solo se non sottoposto a usura del materiale). In pratica a Capodanno avremo consumato e buttato nella spazzatura almeno 1 miliardo e 200 milioni di mascherine. E le precedenti esperienze con Sars e aviaria hanno mostrato che spesso le mascherine chirurgiche non vengono smaltite in modo adeguato: anche in Italia, molti le gettano a caso e parte finiscono in mare. Tre settimane fa, una onlus ne ha raccolte migliaia vicino al porto di Ancona.

     

    Hong Kong: a rischio pesci e mammiferi

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    È quello che è accaduto in Asia: le spiagge di Hong Kong e dell’isola di Soko sono state sommerse di mascherine scartate. Un gruppo di ricercatori dell’associazione Ocean Asia ne ha recuperate centinaia nel corso di alcune ricerche sull’inquinamento marino: «Sono relativamente nuove, quindi erano in mare da poco tempo», sottolineano. Considerato che per settimane i 7,4 milioni di abitanti della città ne hanno usate almeno due a settimana (e che Hong Kong sta affrontando un secondo lockdown per un ritorno dell’infezione), molte altre se ne troveranno nei mari. Le foto dei cumuli di mascherine sull’arenile hanno fatto rimbalzare l’allarme: il sito Energy Live sottolinea «l’effetto devastante che potrebbero avere sull’ambiente», in tutto il mondo. E non sono soltanto gli elastici in gomma delle mascherine a mettere a rischio la vita di pesci e mammiferi negli oceani. Perché la maggior parte delle maschere «sono fatte di poliestere o polipropilene, plastiche che non si degradano rapidamente», ha spiegato alla Reuters Tracey Read, co-fondatrice del gruppo Plastic Free Seas a Hong Kong. Nei pesci l’esposizione cronica «alle microfibre in plastica provoca aneurismi, gravi danni alle branchie e significative mutazioni nella produzione di uova», scrive il sito Rinnovabili.it, e cita uno studio condotto tra Cina e Usa che ipotizza come alcuni prodotti chimici presenti nelle fibre plastiche «possano agire come interferenti endocrini».

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    Le Ong si organizzano per raccoglierle

    «La gente pensa egoisticamente a proteggersi, semplicemente pensa a se stessa — prosegue Tracey Read —. Ma qui non si tratta solo di proteggersi: è necessario proteggere tutti, le persone e l’ambiente. E per farlo non dovete gettar via le maschere». E le mascherine buttate non inquinano soltanto i mari: «Ad Hong Kong le si trovano ovunque — scrive il South China Morning Post — sulle strade e nelle aree verdi pubbliche». Per questo alcune Ong si stanno organizzando per raccoglierle lungo i sentieri extraurbani, così come facevano fino a ieri per la pulizia delle spiagge. E’ un compito rischioso, dato che molte potrebbero essere infette. Ma cruciale per l’ambiente, dato che «ci vogliono anni prima che si decompongano e, dopo, le microplastiche restano comunque pericolose per i pesci se finiscono in mare».

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    Microfibre dal diametro inferiore a 1 micron

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    Anche la Thailandia denuncia l’emergenza rifiuti speciali: il governatore di Bangkok Pol Gen Aswin Kwanmuang ha invitato la popolazione a mettere le maschere da smaltire in sacchetti a parte e scriverci sopra di che si tratta, in modo da poterle inviare aglli inceneritori di Nong Khaem e On Nut. Non è un problema nuovo: già da anni si conoscono i pericoli insiti nell’inquinamento da microplastiche e già dalla seconda metà del decennio scorso si producono oltre 6 milioni di tonnellate di fibre sintetiche (come poliestere o polipropilene) l’anno per attrezzature varie e vestiti sintetici. Ora si aggiungono le mascherine: ogni giorno nel mondo miliardi di face mask dovrebbero finire nella raccolta indifferenziata (come i guanti monouso in lattice) . Il tessuto utilizzato nelle mascherine per filtrare l’aria è una sorta di maglia di filamenti estremamente sottili, prodotti partendo da materie plastiche: «Stiamo parlando di fibre in cui un filamento ha un diametro inferiore a un micron», spiega Markus Müller, direttore delle vendite della tedesca Reicofil, società fornitrice di macchinari per produrre il tessuto-non tessuto filtrante.

     

    La Cina ne esporta 4 miliardi

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    Nello scenario di un mondo nel quale dovremo tutti indossare mascherine chirurgiche per molti mesi ancora, sono impressionanti i dati di Pechino: la Cina ha importato nei momenti di massima espansione della pandemia 2 miliardi di mascherine. Poi ha moltiplicato gli sforzi per aumentare la produzione e oggi sostiene di averne già vendute altri 4 miliardi in tutto il mondo. Eppure The Lancet pubblica i dati previsionali di uno studio realizzato da Commissione Salute, ministero dell’Industria e Centro per il controllo delle malattie infettive della Cina: soltanto per il miliardo e 400 milioni di cittadini cinesi, tra gennaio e giugno ci vorrebbero circa 589 milioni in più di quelle finora prodotte se le maschere venissero imposte in tutte le regioni della Cina. Lo scorso 24 gennaio, in piena emergenza Wuhan, ne mancavano 2,2 milioni al giorno. Da allora la produzione è esplosa e a metà marzo la Repubblica Popolare era già in grado di immetterne sul mercato oltre 200 milioni al giorno, il 50% della produzione mondiale. E ci sono, naturalmente, le maschere false: lo scorso febbraio il governo cinese ha annunciato di aver fatto sequestrare 31 milioni di pezzi non idonei. In Italia, invece, gli esami per la certificazione hanno rivelato che, «su 600 prototipi sottoposti a test al Politecnico di Milano, solo 10 avevano requisiti di sicurezza — ha scritto Milena Gabanelli sul Corriere —, il resto era cotone senza nessuna capacità filtrante».

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    Due miliardi di N95 solo per gli Stati Uniti

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    Negli Usa, la White House Coronavirus Task Force ha aumentato in questi giorni la produzione di maschere N95 (quelle in grado di filtrare il 95% delle delle particelle sospese nell’aria), portandola a 100 milioni di pezzi al mese, e ancora crescerà: si prevede che ne saranno realizzate e distribuite circa 2 miliardi entro l’anno nel solo territorio statunitense. Ma il fabbisogno per far fronte alla pandemia, secondo lo U.S. Department of Health and Human Services (HHS) è di almeno 3,5 miliardi di pezzi. Il solo HHS ne acquisterà come «scorta strategica» 500 milioni di pezzi nei prossimi 18 mesi. La 3M che ne produce la maggior parte, sottolinea che al 30 gennaio scorso le scorte erano già state largamente erose dalla lunga stagione degli incendi in Australia e dall’eruzione vulcanica nelle Filippine. Nello stesso periodo la britannica Cambridge Mask Company aveva comunicato il sold out delle proprie maschere a seguito di ordini per circa 10 milioni di pezzi provenienti da Francia e Portorico: la società aveva subito aumentato la produzione «nelle fabbriche di Xiamen in Cina e di Batam in Indonesia», avvertendo però di «non poter garantire consegne prima di fine febbraio». La sola Taiwan, invece sarebbe passata da una produzione che a inizio febbraio era ferma a 1,9 milioni di maschere al giorno ad un range di 3,2 milioni. Fare la somma di una simile produzione in continua evoluzione è quasi impossibile. Quel che è certo è che se non si intraprenderà al più presto una campagna di sensibilizzazione sullo smaltimento delle mascherine, l’emergenza Coronavirus potrebbe contribuire ad innescare una drammatica crisi ambientale.

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