Andrea Marinelli per il "Corriere della Sera"
IL POST DI BRANDY LEVY CHEERLEADER ESPULSA POST SOCIAL
Lo sfogo social di una cheerleader della Pennsylvania arriverà oggi davanti ai nove giudici della Corte Suprema, chiamati a tracciare i confini della libertà di espressione per gli studenti americani.
Arrabbiata per una delusione sportiva, quattro anni fa l'allora 14enne Brandi Levy aveva affidato a Snapchat la propria frustrazione: «Fuck School, fuck softball, fuck cheer, fuck everything», aveva scritto ai suoi 250 follower dopo essere stata confinata per il secondo anno di fila nella junior varsity, una sorta di seconda squadra del liceo di Mahanoy.
Era convinta che il messaggio - inviato con una sua foto con il dito medio alzato - sarebbe scomparso in 24 ore. Invece non si è mai cancellato.
BRANDY LEVY CHEERLEADER ESPULSA POST SOCIAL
Uno screenshot arrivò agli allenatori, secondo i quali quelle parole violavano le regole della squadra e danneggiavano la scuola. Levy fu sospesa dalla squadra per un anno ma, con l'aiuto della American Civil Liberties Union, la sua famiglia si rivolse al tribunale, sostenendo che la decisione violava il Primo emendamento della costituzione che sancisce la libertà di parola.
Un giudice distrettuale ordinò che fosse riammessa, ma l'appello del distretto scolastico di Mahanoy ha trasformato un caso locale in una controversia che potrebbe influenzare la libertà di espressione di 50 milioni di studenti.
LIBERTA D ESPRESSIONE
Finora lo «student speech» è stato regolato da una sentenza del 1969: la Corte Suprema stabilì che due studenti dell'Iowa potevano indossare a scuola una fascia nera al braccio contro la guerra del Vietnam. La sentenza chiariva che alunni e insegnanti non perdono il diritto alla libertà di parola quando varcano il cancello della scuola: gli istituti hanno però più autorità rispetto agli Stati nel limitare la libertà di espressione degli studenti, se causa problemi alle funzioni scolastiche.
DIBATTITO SU CHEERLEADER ESPULSA POST SOCIAL
Nel 1969, però, non esistevano i social. Lo sfogo di Levy è diverso dalla protesta dei due ragazzi dell'Iowa: è avvenuto lontano da scuola, online, nel weekend. Perciò la corte d' appello ha stabilito non solo che la studentessa dovesse essere riammessa, ma che la decisione del 1969 non avesse valore fuori dai cancelli scolastici.
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«Con le nuove tecnologie gli enti regolatori potrebbero provare a sopprimere parole che ritengono inappropriate», scrisse la giudice Chery Ann Krause. «Non possiamo permetterlo senza sacrificare le libertà protette dal Primo emendamento». La morale giuridica di questa storia sarà scritta dalla Corte Suprema.
LA RISPOSTA DELLA SCUOLA CHEERLEADER ESPULSA POST SOCIAL
A sostenere Levy c' è una coalizione che riunisce no profit progressiste, procuratori repubblicani e think thank libertari: le scuole che non distinguono fra dentro e fuori l'aula - sostengono - sottopongono gli studenti a un costante monitoraggio del pensiero.
Appoggiato dall' amministrazione Biden, il distretto sostiene invece che Levy non possa essere protetta dal Primo emendamento, perché i social portano in aula ciò che avviene fuori: cosa succederebbe se un alunno pubblicasse le risposte di un esame?
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Di morale, però, ce n' è anche una sportiva: dopo essere stata riammessa Levy si è guadagnata per due anni il varsity team, la prima squadra che tanto desiderava.
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