Giuseppe Legato e Lodovico Poletto per “La Stampa”
CARCERE IVREA
L'infortunio sul luogo di lavoro era falso. E quel braccio rotto non era altro che la conseguenza delle botte che gli avevano dato gli agenti. Tante. Senza pietà. Eppure agli atti del carcere quelle ferite al detenuto erano classificate come un semplice infortunio. Perché così nessuno faceva domande. Anche se, in realtà, tutti, o quasi, sapevano e tacevano.
Carcere di Ivrea: 240 reclusi in uno spazio che ne potrebbe contenere a malapena 200. Parte da questo episodio l’ultima inchiesta che squarcia il velo su ciò che accade in quel cubo di cemento e acciaio alla periferia della città. Indagine corposa, partita in estate e arrivata ieri ad una svolta. Con perquisizioni nel cuore della notte. Computer sequestrati. Agenti prelevati da casa e accompagnati al penitenziario ad aprire gli armadietti: frugati anche quelli.
CARCERE IVREA
Quarantacinque gli indagati. Sono agenti di custodia, il loro comandante, tre educatori, alcuni medici, il direttore della struttura e il suo predecessore. Per i primi le accuse sono gravissime. La prima è tortura. Ma ci sono anche le violenze, fisiche e psicologiche. Ciò che fino ad oggi - e nelle cinque inchieste precedenti - non era mai stato contestato. I reati più abbietti. Nei confronti degli altri indagati, invece, le accuse sarebbero di carattere omissivo: sapevano e avrebbero taciuto. Oppure non avrebbero scritto nei documenti ufficiali tutta la verità. Come, appunto, accaduto nella storia del braccio spezzato al detenuto.
Teatro delle violenze due locali di quel carcere già ampiamente citati nelle precedenti indagini: la «cella liscia» e l’«acquario». Dove - e qui vale la pena citare le parole del procuratore capo di Ivrea, Gabriella Viglione - «i detenuti venivano picchiati e rinchiusi in isolamento senza poter avere contatti con alcuno, nemmeno con i loro difensori». Ecco le torture. Le violenze psicologiche.
CARCERE DI IVREA
Quindici i casi ricostruiti dagli inquirenti, tutti nell’ultimo biennio. Ma quelli più recenti risalgono all’ultima settimana di luglio e alle prime due di agosto. Vale a dire proprio nei giorni in cui la Procura generale di Torino raggruppava i fascicoli di precedenti indagini. Riprendeva i fili di storie vecchie e fascicoli archiviati e abbozzava un quadro di quel penitenziario tutt’altro che idilliaco. Ecco, mentre il Pg Francesco Saluzzo e il sostituto Gian Carlo Avenati Bassi esaminavano le carte, a Ivrea la pm Valentina Bossi lavorava già su altro.
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In quel mare di carte ancora tutte segrete ci sono anche quelle che raccontano del «trattamento» riservato al detenuto Vincenzo Calcagnile finito a Ivrea a scontare un «cumulo pene» lo scorso mese di luglio, e trasferito d’urgenza a Lecce a fine agosto dopo aver perso 18 chili. Durante la detenzione quell’uomo di 37 anni aveva anche cercato di suicidarsi. Il giorno in cui La Stampa pubblicò la coraggiosa denuncia della madre, fu interrogato nel penitenziario salentino da due ispettori. A loro disse: «Non abbiatene a male, ma parlerò solo davanti a un magistrato».
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E cosi la dottoressa Bossi lo ha fatto salire su un aereo. Interrogatorio: «Sono entrati in cinque nella mia cella, mi hanno costretto a bere tranquillanti in dosi massicce, molto superiori a quelle che dovevo assumere per una blanda terapia che mi era stata prescritta». Parlò a lungo delle botte. E sui presunti aggressori disse: «I nomi non li so, ma se mi fate vedere le foto sono in grado di riconoscerli». Da lì è partita l’indagine. Da lì si è iniziato a parlare di torture. Di silenzi complici. A tanti, troppi livelli.
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