OUSSEYNOU SY
(ANSA) C'è stato un fitto lancio di uova e frutta, nel carcere di San Vittore, ieri, quando è arrivata la distribuzione della colazione a mensa. Gli insulti e gli alimenti sono partiti in direzione della cella di Ousseynou Sy, il dirottatore del Pullman con 51 bambini, che ha passato la sua prima notte, insonne, a San Vittore.
Reazioni del genere non sono insolite, in carcere, quando arrivano nuovi detenuti come violentatori e pedofili, che per la cosiddetta 'legge del carcere' sono indesiderabili. Anche per questo dopo la prima notte Sy è stato trasferito nel Settore protetti dove si trovano pentiti e appartenenti alle forze dell'ordine.
2. OUSSEYNOU SY, LA PRIMA NOTTE A SAN VITTORE: UOVA E ARANCE CONTRO LA PORTA
Maurizio Giannattasio per corriere.it
A porgere il benvenuto a Ousseynou Sy sono stati gli altri carcerati di San Vittore. Un lancio incessante di uova e arance contro la porta della sua cella. Per tutta la notte. Senza sosta e senza permettergli di chiudere occhio. Lo riferisce lui stesso a un politico che è andato a trovarlo giovedì in quella che è la sua nuova cella. Perché, passata la notte, la direzione di San Vittore ha deciso di spostare l’autista di origini senegalesi dal quinto raggio al reparto protetti, la sezione destinata ai detenuti che non possono stare insieme ad altri come i pentiti, i sex offenders, gli ex appartenenti alle forze dell’ordine e coloro che hanno compiuto reati contro donne e minori. Il codice non scritto del carcere non perdona. Guai a chi tocca i bambini.
OUSSEYNOU SY
Jeans, una maglietta bianca, sopra una camicia a scacchi. Ai piedi un paio di ciabatte. I vestiti non sono suoi. Glieli ha prestati il suo compagno di cella. Un italiano. I suoi sono andati in parte bruciati dopo che ha appiccato il fuoco all’autobus. Sulle braccia presenta delle ferite, anche queste causate dalle fiamme. Su un braccio ha una fasciatura. Italiano è anche l’altro recluso.
Siamo al quarto piano del reparto protetti, stanza 402. Qui le celle restano aperte dalle 8 alle 19 e i detenuti possono incontrarsi e parlare. Nella sua «stanza» ci sono due letti singoli e uno a castello. Ousseynou si fa trovare seduto sul letto più in alto. Da lì riesce a guardare attraverso la finestra che dà sul cortile interno. Ed è su quel letto che dormirà. «Qui non ho paura — dice al suo interlocutore — come invece ho avuto di sotto».
IL BUS SEQUESTRATO DA OUSSEYNOU SY
Appare lucido, consapevole e a questo punto, dopo lo spavento della notte, anche tranquillo. Chi lo ha incontrato è rimasto colpito soprattutto dal suo sguardo, «convinto di quello che ha fatto, con una visione, insomma non un matto». Di più. Uno che ha programmato tutte le sue azioni dalla prima all’ultima. Nonostante i tanti anni passati in Italia, la cadenza straniera si sente forte. Lui parla, parla, parla. Ripetendo come una litania che «mi sono sacrificato per l’Africa». La cella è spoglia. Non ci sono manifesti, non ci sono fotografie. Un gran bianco. In compenso c’è la tv e la doccia oltre a un armadio a muro sospeso. Ma nessun fornelletto per evitare che i detenuti tentino di suicidarsi. Non possono cucinare il loro cibo come fanno gli altri. È la legge del reparto protetti dove i reclusi sono sorvegliati a vista e hanno un’ora d’aria separati dagli altri carcerati.
IL COLTELLO USATO DA OUSSEYNOU SY
Nella visita di mezz’ora, Sy parla poco o niente con i suoi compagni di cella. Preferisce rispondere alle domande del suo interlocutore. Anche a quella più ingenua e diretta. Lei è un terrorista? «Io faccio cose politicamente, non uccido». È come se preparasse in anticipo la sua difesa davanti ai giudici. Dice di essere un «panafricanista» e spera anche nella vittoria delle destre in Europa «così non faranno venire gli africani, si fermerà lo sterminio e non ci saranno più morti in mare, basta sfruttamento, basta populismo».
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I minuti passano. Ousseynou Sy, o Paolo, come si faceva chiamare a Crema, continua la sua arringa senza nessun segno di pentimento o di ripensamento. Anzi. «Sono sicuro che quando i miei due figli saranno grandi capiranno quello che ho fatto». Speriamo di no.
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