HONG KONG
Giampaolo Visetti per “la Repubblica”
Dal quartier generale della polizia, a Fanling, si alza una nuvola rossa. Il vento caldo sparge per il quartiere il gas al peperoncino testato dai reparti anti- sommossa, pronti a spruzzarlo sulla folla. Alla vigilia delle elezioni legislative, Hong Kong è blindata e si prepara al voto di domenica in uno stato d’assedio. Pechino, impegnata nella vetrina G20 del suo soft-power globale, non ammette sorprese imbarazzanti nell’ex colonia britannica.
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Gli agenti mobilitati sono 5mila, già schierati in ogni quartiere della metropoli. I dieci punti di transito per il Guangdong sono bloccati: sospesi «per aggiornamento tecnico » i visti turistici verso la Cina continentale. Al setaccio della censura anche il web, mai successo nella città- simbolo di libertà e capitalismo.
Un video della Lega della gioventù comunista, mostra immagini- shock di Siria e Iraq: alla fine chiede agli hongkonghesi se vogliono «ridursi a vivere in un posto come questo» e avverte di «fare attenzione alle rivoluzioni colorate sostenute dagli Usa». Lo spettro che si aggira sopra l’arcipelago non è più la democrazia, ma l’indipendenza.
A quasi vent’anni dall’addio di Londra, Pechino teme che Hong Kong si trasformi in un esplosivo “nuovo Tibet”, o in una “seconda Taiwan” alimentata dal business e dall’Occidente. Il voto viene così presentato dai media di Stato come «una battaglia da non perdere contro i nemici che vogliono affossare la Cina».
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L’ultimo scontro, dopo due anni di crescenti tensioni, scuote gli stessi candidati. Sei gli esclusi in extremis, accusati di non aver sottoscritto una dichiarazione di fedeltà a Pechino, riconoscendo che l’ex colonia «è parte inalienabile della Cina continentale».
Per democratici e “localisti” la repressione conferma che il partito-Stato pre-seleziona i candidati, bandendo la libertà politica e di parola. Per l’establishment «fedele alla madrepatria» evocare indipendenza e autodeterminazione è un reato, viola la «Basic Law», la Costituzione cittadina, e il modello «un Paese, due sistemi », compromesso che fino al 2047 assicura a Hong Kong un regime speciale.
Le urne non si sono ancora aperte ed è già guerra legale. Indipendentisti e nostalgici che sognano il ritorno della Corona britannica pretendono di annullare le elezioni. Il governo cinese minaccia «azioni esemplari» contro «candidati ed eletti secessionisti», paragonati a «terroristi». L’incubo collettivo, nella capitale della finanza asiatica, è il caos, o una guerra civile peggiore di quella rischiata due anni fa, durante i 79 giorni della «rivoluzione degli ombrelli».
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«Fino a ieri — dice il giurista Benny Tai, fondatore del movimento Occupy 2014 — l’indipendenza era un’utopìa marginale. Ora è una tentazione di massa, che assorbe anche i valori di democrazia e libertà: è il risultato dell’offensiva autoritaria di Pechino, che pretende di normalizzare la metropoli ben prima del previsto mezzo secolo ».
La censura del potere filo-cinese ha cancellato i sostantivi «indipendenza » e «autodeterminazione » dai manifesti elettorali. Sequestrati i volantini che li usavano. «L’indipendentismo — dice il leader pro-Pechino Starry Lee — è come una brutta eruzione cutanea. Più gratti e più si irrita. Solitamente non è grave e passa, ma va capito in tempo se è già degenerata in un cancro da rimuovere con il bisturi».
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I sondaggi confermano che la frattura sociale è consumata. Per l’«Università cinese», favorevoli e tentati da un addio alla Cina sono al 40%. Per l’ateneo di Hong Kong solo il 31% dei residenti sono ancora «orgogliosi di essere cinesi», rispetto al 65% del 1997. I secessionisti, tra i 18 e i 29 anni, superano il 90%.
«C’è il rifiuto del pugno anti- democratico di Pechino — dice il leader dei “localisti” Edward Leung, escluso dal voto — ma conta anche la voglia collettiva di un atto di sfida per un reale auto-governo ». Per scongiurare assedi alla Commissione elettorale il conteggio dei voti è stato trasferito nel palazzone Expo vicino all’aeroporto, sull’isola di Lantau, presidiato dall’esercito. Democratici e pro-indipendenza temono brogli diretti da Pechino e tornano gli appelli a mobilitarsi per «una rivoluzione ».
La tensione, nel centro degli affari già in crisi per la frenata cinese, è al massimo da mesi. A inizio anno il sequestro dei cinque librai accusati di aver introdotto nel continente testi politici vietati dal partito: catturati in città e all’estero dalla polizia cinese, restano «scomparsi ».
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Tra luglio e metà agosto la condanna per «raduno illegale» dei tre studenti, leader del «movimento degli ombrelli» che si oppose alla riforma elettorale-truffa imposta dal governo cinese. «Non siamo pentiti — dice Joshua Wong, 19 anni, anima della rivolta e ora fondatore del partito “Demosisto” — e questa vigilia elettorale prova che avevamo ragione. In gioco non c’è il potere, ma la libertà. Pechino vuole schiacciare Hong Kong per cancellare i valori democratici dalla testa di tutti i cinesi: pensare all’indipendenza, come ultima spiaggia, in simili condizioni è naturale ».
In palio ci sono i due terzi dei 70 seggi nel Legco, il consiglio legislativo metropolitano, necessari per approvare le nuove regole del finto «suffragio universale» concesso dal presidente Xi Jinping. La Cina comunista contro la liberale e sempre più filo-occidentale Hong Kong: per evitare, proprio mentre i Grandi sfilano al G20 di Hangzhou, che business e capitalismo adottino la bandiera di un loro «nuovo Tibet».
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