Fulvio Abbate per L’Unità - Estratti
johnson righeira
Johnson Righeira, al secolo Stefano Righi, torinese di Barriera di Milano: cuore popolare della città antifascista, speculare a Borgo Sanpaolo che altrettanto ancora custodisce memoria dell’epopea partigiana di Dante Di Nanni e Giovanni Pesce. Il nostro Johnson, sappiate, fa ritorno a noi dalla “playa” dei comuni ricordi canori. Resta in lui la scia fosforescente degli anni ’80.
(...) Se nei ‘70, gli incolpevoli De Gregori, Guccini e Bennato venivano “processati” direttamente sul palco dei concerti perché ritenuti aspiranti “divi”, e così infine presi a calci nel sedere dal popolo giovanile delle “autoriduzioni”, i Righeira segnavano esattamente il riemergere di ciò che Roberto D’Agostino definiva felicemente “edonismo reaganiano”; ancora un inquilino della Casa Bianca a dare nome e sfondo alla nostra storia metropolitana.
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Johnson c’è ora quasi da immaginarlo nel mattino del giorno dopo le estati musicali glitterate post-atomiche, sull’ennesima “rotonda sul mare” del nuovo incerto millennio… Forse però è il caso di ascoltare lo stato delle cose dalla sua stessa voce. Non resta che annunciargli la nostra chiamata su WhatsApp dove figura un logo all’apparenza proprio degli “antifa”.
Pronto, Johnson, ci sei? Cominciamo con una domanda facile, perfino banale: qual è la playa dove occorre immaginarti in questo esatto momento?
“Sto in Sardegna, come se l’estate non fosse ancora finita, ma per fortuna il tempo post-atomico non è mai arrivato”.
Mi domandavo: non sei per caso comunista?
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“Sono cresciuto con una formazione di sinistra, mio padre era comunista, se devo dire tutto con sincerità mi riconosco piuttosto nel pensiero socialista… Ti devo però correggere: il logo che appare sul mio WhatsApp in verità è il simbolo della squadra belga che tifo ormai da anni, l’Union Saint-Gilloise, maglia giallo-blu e tifoseria di sinistra. ‘L’estate sta finendo’, se devo essere sincero, era un pezzo sulla crescita, sul timore di crescere, un sentimento che vivo ancora adesso”.
Bene, l’estate del 2024 è appena finita e adesso canti un brano intitolato "Ho sempre odiato gli anni '80".
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“Sì, un pezzo generazionale, ironico. Una risposta a chi accusa quel decennio d’essere qualcosa di vuoto e superficiale. In realtà sono stati giorni di enorme creatività. Devi sapere che mi sono sempre sentito futurista, rifiutando invece il postmoderno.
Il futurismo l’ho scoperto da adolescente quando non era stato ancora sdoganato, me ne sono innamorai dopo avere visto una mostra intitolata ‘Ricostruzione futurista dell’universo’ alla Mole Antonelliana, sebbene il mio lavoro di musicista abbia una impronta decisamente più pop”.
Hai nostalgia del futuro quindi…
“Pensa se un genio dell’architettura come Antonio Sant’Elia non fosse morto in guerra, immagina cosa avrebbe potuto progettare, metti, a Manhattan…”
Bene, Johnson, cerchiamo ora di volare un po’ più rasoterra: a cosa attinge “Ho sempre odiato gli anni ‘80”?
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“Il pezzo non l’ho scritto io, ma Gionathan, è stato lui a volersi ispirarsi agli anni ‘80, una persona molto più giovane di me, uno che non li ha vissuti come invece è accaduto a chi, sempre come me, è nato nel 1960, un boomer. Lo ha fatto seguendo un’idea nostalgica, citazionistica, tipica della generazione che in qualche modo sceglie di confrontarsi con il passato usando l’elettronica. Devi pensare a qualcosa di simile a ciò che fanno i Thegiornalisti o i The colors oppure a certi cantautori della nuova scena”.
A parte i futuristi a quali altre citazioni vitali in ambito artistico pensi sempre facendo ritorno agli anni Ottanta?
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“Penso a designer come Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, al progetto “Alchimia” e “Menphis”, penso ancora a Keith Haring, Superstudio di Firenze, faccio ritorno a un grande lascito culturale, alto, colto”.
Da torinese l’estetica dei Mods, quindi lo ska, non ti ha mai contagiato, penso a gruppi come Statuto di Oskar Giammarinaro?
“Certo, ho vissuto con entusiasmo l’epopea dei Madness e The Specials…”
L’inizio di tutto?
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“Quando insieme al mio socio, Michael Righeira, cioè Stefano Rota, facevamo il servizio militare, subito dopo l’estate dell’83, la mia vita è cambiata allora, mi sono trasferito a Milano perché lì allora era il motore tutto”.
E adesso, oltre la musica?
“Ho creato il marchio “Kottolengo”, produco musica, vino e t-shirt, lo slogan che mi accompagna è ‘Se ti conosci ti eviti’, e attualmente sto nel Canavese, anche se ho comprato una casa di ringhiera a Torino dalle parti di Porta Palazzo, dov’è il balun”.
Dimenticavo: Juve o Toro?
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“Sono 'gobbo', come Gipo Farassino”.
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