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    L'OSCAR DEL VATICANO-ANO-ANO - SU "GQ" NUZZI RECENSISCE “IL CASO SPOTLIGHT” SULLA PEDOFILIA NELLA CHIESA: “IL FILM SCOLPISCE UN SISTEMA DI POTERE ANCORA OGGI PRESENTE. IN VATICANO, PER NON DESTARE SCANDALO SI PREFERISCE RIMUOVERE, TRASFERIRE, PIUTTOSTO CHE PERSEGUIRE”


     
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    GQ - FEBBRAIO 2016 GQ - FEBBRAIO 2016

    Gianluigi Nuzzi per “GQ”

     

    Il caso Spotlight è un film che percorre strade narrative mai scontate, evita le scorciatoie emotive, la furbizia della lacrima facile. Una pellicola ruvida, anche abrasiva nel descrivere la violenza peggiore che sgomenta: l’abuso sessuale, impunito per di più, di un adulto su un bambino.

     

    Ho seguito ogni scena del film con gli occhi lucidi per accorgermi solo alla fine che non ero commosso dal dolore dei piccoli − lasciato con britannica sapienza sempre alla deduzione − ma dal coraggio dei grandi nel denunciarlo, nel rompere le catene dei silenzi, della coltre di complicità e pavidità di cui infamie come questa godono per inabissarsi nella buona società di una città dalle ipocrisie nascoste.

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    Essere negli Usa, a Boston, dove il film diretto da Tom McCarthy con Mark Ruffalo, Michael Keaton e Rachel McAdams è ambientato, o nella provincia italiana, poco cambia: Il caso Spotlight scolpisce un sistema di potere ancora oggi presente. È “il sistema” in cui chi comanda nel proprio mondo (politico, ecclesiastico, accademico, economico, delle professioni, pubblico, giudiziario e delle forze dell’ordine) si incontra con le altre élites, tesse alleanze, costruisce carriere, conclude affari in una sorta di monopolio, sbarrando gli accessi a chi è privo di requisiti.

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    Contrariamente a quanto si possa pensare questo “sistema” è regolato da pochissime leggi non scritte. Sono ammessi colpi bassi, doppi giochi, tradimenti, tollerate persino truffe e ricatti. Ma alcune regole restano inviolabili. Il sistema si salda in un unicum quando qualcuno cerca di scardinarne i segreti, mettendo a repentaglio il potere di un membro che ha raggiunto una posizione significativa o apicale non solo per le proprie competenze, ma talvolta anche grazie alla qualità di notizie e segreti imbarazzanti che possiede. Il sistema reagisce all’unisono per sanare la falla.

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    Intralcia indagini giudiziarie e giornalistiche, insabbia commissioni d’inchiesta, depista la ricerca. Un’azione senza sconti, di autotutela, indispensabile per evitare tutto ciò che desta scandalo e turbamento nella collettività. Infatti, quando una situazione diventa insostenibile, il membro viene espulso per evitare che la crisi diventi strutturale, che si allarghi il contagio, che altri debbano rispondere di responsabilità rimosse, sepolte, indicibili.

     

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    Il caso Spotlight è l’impietosa fotografia di questo sistema. Ci fa calare con realismo a Boston nell’estate del 2001, quando un gruppo di cronisti investigativi − appunto la squadra Spotlight del quotidiano Boston Globe − ricompone lo sconvolgente mosaico di trent’anni di abusi sessuali compiuti da una settantina di sacerdoti in città. Una storia drammaticamente vera che ha contribuito alla lotta alla pedofilia portata avanti da Benedetto XVI con determinazione mai vista prima nella Chiesa.

     

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    Il caporedattore del team Spotlight, Walter Robby Robinson (Michael Keaton), organizza la ricerca: vittime, testimoni, fiancheggiatori, complici, pedofili, agenti. I cronisti ascoltano decine e decine di persone, ricostruiscono con dovizia, pignoleria e tatto storie di violenze, portando il film in una dimensione di estremo realismo.

     

    È un film di impegno, fortemente americano, che non strizza l’occhio al pubblico, indorando la tragedia con qualche banale storia d’amore tra i protagonisti. Il bene è il coraggio di chi cerca e combatte la verità, il male è il tradimento più profondo, quello compiuto su chi si attrezza a crescere e che rimarrà per sempre segnato dalle violenze patite. Perché è anche questo che emerge: il pedofilo trasforma i bambini in ergastolani innocenti, alcuni poi da vittime diventeranno a loro volta carnefici.

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    Una catena senza fine che pellicole come questa aiutano a rompere. Nel film si intrecciano e sviluppano quindi più inchieste: quella sulla pedofilia certo, ma anche una − inconsueta peraltro − sul giornalismo. Oggi assistiamo ogni giorno al funerale del giornalismo d’inchiesta, soffocato dalla crisi economica, metastasi nei media, e relegato a posizioni periferiche nella galassia dell’informazione.

     

    Ebbene, in questo declino il nuovo direttore del Globe Marty Baron, catapultato da Miami e oggi al Washington Post, ha l’intuizione di non ridurre orizzontalmente i costi ma di valorizzare la qualità del giornale, dando il mandato più ambizioso ai colleghi di Spotlight: firmare un’inchiesta non solo sui casi di pedofilia che hanno segnato i ragazzi ma soprattutto sulla rete di protezioni, un autentico sistema fognario, che a ogni grado ha coperto questa ignominia.

    IL CARDINALE BERNARD FRANCIS LAW BACIA LA MANO DI PAPA RATZINGER IL CARDINALE BERNARD FRANCIS LAW BACIA LA MANO DI PAPA RATZINGER

     

    Fascicoli processuali spariti, indagini insabbiate, avvocati che si vendono le vittime per rimborsi irrisori, notizie occultate: il mosaico di responsabilità e connivenze che Spotlight fa emergere è inquietante. Come si dice in casi come questo, ce n’è davvero per tutti.

     

    Tuttavia il film ricorda anche che la missione del giornalista non è solo quella di raccontare fatti e delitti, ma di andare in profondità per svelarne la rete di complicità che li sorregge. Colpire una singola responsabilità sarebbe un sollievo per la vittima ma non eviterebbe nuove tragedie.

     

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    Per questo Mike Rezendes, giornalista inquieto, interpretato da un potente Mark Ruffalo, dedica settimane a scavare in ogni storia pur di scolpire responsabilità sempre più alte nelle gerarchie. E arriva al cardinale Bernard Francis Law, che realmente è stato arcivescovo di Boston dal 1984 al 2002, quando si dimise proprio per lo scandalo dei preti pedofili, non avendo denunciato i sacerdoti coinvolti. Per ricompensa, il Vaticano lo nominò fino al 2011 arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, dove tuttora è arciprete emerito.

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    Una scelta clamorosa? Mica tanto: ancora oggi, in Vaticano, proprio per non destare troppo scandalo si preferisce rimuovere, trasferire, piuttosto che perseguire. Ma per un destino sconosciuto agli autori, Spotlight ci porta proprio fino al pontificato di Francesco. Perché, se c’è una basilica particolarmente amata dal papa argentino, è proprio questa, visitata almeno una ventina di volte negli ultimi anni da Bergoglio.

     

    A Santa Maria Maggiore, dopo il contestato Law, arrivò lo spagnolo Santos Abril y Castelló, uno dei primi a mettere in guardia Francesco dai pericoli in curia. In una lotta tra bene e male, destinata a continuare per sempre. Insomma, il sistema, soprattutto nelle sue espressioni negative, è capace di riprodursi, inabissarsi e soprattutto proteggersi. Dai giornalisti d’inchiesta e da film come Il caso Spotlight.

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