Irene Famà per “La Stampa”
Gianni Vattimo e il compagno Simone Caminada
Questo matrimonio non s’ha da fare. Soprattutto non così, un’unione civile in fretta e furia, nel bel mezzo di un processo, come quella che Simone Caminada ha provato a organizzare con Gianni Vattimo di cui è compagno, amico, factotum.
Ci ha provato lui, l’assistente di 36 anni accusato di aver approfittato delle condizioni del grande pensatore torinese per ottenere l’eredità? O ci ha sperato Vattimo, il più importante filosofo italiano del ‘900, che a 86 anni combatte con le fragilità del fisico e della mente?
Impossibile stabilire da chi è partita l’iniziativa. Ma il 7 dicembre la richiesta è stata presentata al Comune di Vimercate, in provincia di Monza. Perché proprio lì? «Perché ci piace», risponde spavaldo Caminada. Che ieri in Tribunale a Torino, è arrivato avvolto in una pelliccia e con un reporter al seguito per riprendere ogni sua battuta, ogni suo movimento. D’altronde ogni udienza è uno show che mal si concilia con i riti della Giustizia, con la giudice che, imperterrita, ricorda all’imputato dove si trova. E che no, non si può intervenire quando si vuole, non si possono ostentare smorfie, bisogna mantenere un comportamento consono.
vattimo simone caminada
Il processo è in corso. E proprio per questa ragione, quella richiesta di unione civile è stata bloccata dalla procura di Torino con un provvedimento del 12 dicembre. Iter sospeso, quindi, in attesa della sentenza. Anche perché l’unione civile prevede che l’eredità vada al coniuge e, per di più, rende non punibili i reati legati al patrimonio dei coniugi. Questo metterebbe Caminada al riparo da eventuali futuri guai giudiziari.
«Un’osservazione voglio farla io», commenta Caminada. «L’unione civile è stata bloccata, eppure io sono un uomo libero». Vero, ma nel processo che lo vede coinvolto la questione è un’altra, opposta, e il reato che gli è contestato la riassume bene: circonvenzione d’incapace.
«Perfettamente consapevole della situazione di fragilità e di suggestionabilità del filosofo, Caminada ne ha approfittato», sostengono i magistrati Dionigi Tibone e Giulia Rizzo che hanno chiesto una condanna a quattro anni di reclusione. «Puntava ai soldi, a diventare erede universale». E per riuscirci ha conquistato la fiducia di Vattimo arrivando a fare «da filtro nelle sue comunicazioni, isolandolo, escludendolo dalla vita sociale».
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Accudendolo, sì. Ma anche amministrandone il patrimonio: erede universale, intestatario di polizze assicurative e altri beni. Un altro rompicapo: se anche venisse condannato, Caminada resterebbe erede a meno che il testamento non venisse impugnato in sede civile. Già, ma da chi? Di sicuro - almeno per ora - non da Vattimo.
A Caminada l’accusa contesta conti, firme, intercettazioni. Una tra tutte. Caminada parla con la madre: «L’eredità spetta alla moglie. A te vanno le case. È meglio se ti accatti i soldi, se ci riesci. La casa ” lasuma perdi”, sarebbe solo un debito».
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La difesa, ieri nella maxi aula 3 del tribunale, contrattacca: «Non stiamo parlando di un povero vecchio coperto di stracci e abbandonato sul ciglio della strada».
L’avvocata Corrada Giammarinaro del foro di Roma parla di Vattimo come di un «uomo che conosce bene il gioco della seduzione e la gestione del triangolo amoroso. Un uomo che coltiva la sua idea di libertà. Diversa da quella della procura e di alcuni personaggi che compaiono in questa vicenda».
Il riferimento è ai tanti, amici, conoscenti, bisognosi, che negli anni dal professore hanno sempre ricevuto soldi e aiuto. L’avvocata parla di una sorta di «nido di serpi pronte a scagliarsi le une contro le altre». E accusa i magistrati di «posizioni borghesi e classiste. Vattimo tiene fede alla sua concezione di libertà, che l’ha sempre guidato nella scelta delle sue amicizie e dei suoi amori. Ha inserito nel salotto buono soggetti ad esso estranei». Qualcuno ne ha approfittato.
E sentito come testimone, lo ha ammesso in aula, con cinismo disarmante. «Il professore aveva un forte desiderio di colmare la solitudine. Aveva paura di rimanere solo, senza nessuno intorno. Così ne beneficiavano tutti», aveva detto un uomo, Stefano, con cui Vattimo aveva avuto una relazione «intima e profonda» iniziata nel 2013 che poi dal 2017 era andata via via allentandosi.
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Ma erano altri tempi, altri anni. Forse, anche altre fragilità. Intime e che nell’intimo devono restare perché non sono oggetto di dibattimento. Il procuratore aggiunto Tibone nella sua breve replica è chiaro: «Qui non si discute della libertà e dell’amore. E non c’entra nulla l’omosessualità, lo abbiamo sempre detto. Come non c’entrano nulla la generosità, le scelte di vita, la filosofia. Abbiamo solo valutato dei comportamenti che costituiscono reato».
E Vattimo? Arriva in sedia a rotelle, segue l’udienza senza dire una parola. Non si è costituito parte civile, ha sempre difeso il suo assistente. A prescindere dalla sentenza viene da pensare che, raggirato o meno lo stabiliranno i giudici, la più grande ferita, quella negli affetti, sarà la sua.
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