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Carlo Moretti per “la Repubblica”
VENDITTI
Era il 1974, i ragazzi portavano i pantaloni a zampa d’elefante, per strada si poteva ancora tentare l’autostop. Quel giorno Antonello Venditti e una sua amica erano corsi all’Università di Roma per Leonard Cohen, che avrebbe parlato di Belli e dannati, appena tradotto in Italia.
Risultato: «La mia amica alla fine dell’incontro lo rimorchiò e lo ospitò per una settimana a casa sua. Che frequentai anch’io: ho avuto per una settimana Cohen tutto per me. Era già un punto di riferimento: con Francesco De Gregori in Theorius Campus l’avevamo citato in una canzone: “una vestaglia, vini di Creta, dischi di Leonard Cohen”».
Cosa facevate nella vacanza romana?
COHEN
«Aveva sempre con sé un taccuino, prendeva continuamente appunti. Parlavamo di musica, gli feci ascoltare il mio album Quando verrà Natale, traducendogli A Cristo e dimenticando che era ebreo ho avuto qualche mancamento, forse alla fine se n’è andato da Roma perché ha scoperto che aveva un diavolo in casa».
L’avete portato a scoprire Roma?
«L’abbiamo portato a un concerto di Piero Ciampi e lì ho scoperto che in realtà lo conosceva già come Piero l’Italiano, dal suo soggiorno a Parigi. Lo salutò caramente, “Piero!”. Parlammo dei suoi traduttori, diceva che il francese scriveva meglio di lui. Gli parlai degli ammiratori italiani come Francesco, che lo conobbe quella sera, di De André che l’aveva conosciuto attraverso Francesco ».
Avevate la percezione di un poeta?
VENDITTI DE GREGORI
«Aveva già scritto molti libri, io l’ho letto molto, e le storie che mi sono piaciute di più sono quelle d’amore. L’ho visto commuoversi fino alle lacrime, ascoltando un disco di Joni Mitchell in questa casa romana, ha pianto sulla mia spalla, in quel periodo era perdutamente innamorato di lei. Io non sapevo che fare. Continuava a bere Chianti dai fiaschi, non esattamente di buona qualità».
Una scrittura diversa da quella di Dylan.
«Forse per il Nobel sarebbe stato più giusto lui. C’è una profondità, un visionarismo diverso, anche perché la sua cultura ne conteneva tante. Lui è stato meno musicista e più poeta, Dylan ha rivoluzionato la musica ».
JONI MITCHELL 1
2. "SEI ANNI NEL MONASTERO CON UN MAESTRO ZEN IN CERCA DI SEMPLICITÀ"
Piero Negri per la Stampa
Non è difficile immaginare come fosse realmente Leonard Cohen, basta aver visto e ascoltato uno dei suo album: vestito di grigio, o nero, molto cortese, voce dai toni bassi, frasi brevi e semplici per dire verità intime e spesso universali.
Lo incontrai per la prima volta nel 1992, quando lui a 58 anni aveva salutato il nuovo ordine mondiale con un album e una canzone intitolati The Future : «Ridatemi il Muro di Berlino, ridatemi Stalin e san Paolo, ho visto il futuro, fratello: è un massacro».
leonard cohen
Ero pronto a parlare di politica, della sensazione che si aveva a quel tempo, che la Storia si facesse sotto i nostri occhi, lui parlò di Apocalisse: «L' umanità sta per essere travolta, siamo ai giorni finali, è difficile per chiunque trovare un senso a ciò che fa, alla sua esistenza». Gli chiesi allora quando pensava fosse iniziato il «Futuro».
Rispose: «Hai presente quelle pitture rupestri nelle grotte spagnole? Siamo sempre quelli, da allora non siamo cambiati poi granché». Dopo quell' album, e il tour che ne seguì, Cohen salì in montagna, in un monastero zen, in California. Ci rimase quasi sei anni, tornò con un quintale di carta («Dentro c' erano canzoni per due album e un libro»).
Nel 2001, a 67 anni, pubblicò l' album Ten New Songs e venne in Italia a parlarne. Era sempre molto elegante, vestito di nero, il tono di voce era ancor più basso, l' ironia era diventata autoironia: «Nessuno ti chiede di andare in profondità: le mie canzoni se ne stanno lì e galleggiano sulla superficie. Ma chi vuole, trova porte e finestre per entrare», mi disse.
COHEN DYLAN
E spiegò come Roshi, il suo maestro zen, l' aveva cambiato: «Cucinavo per lui, ero il suo attendente. Lui non parla bene inglese, la conversazione era elementare, nessuna grande idea, nessun concetto complesso. Gli portavo la cena, lui diceva: "Questo ristorante buono". Sono suo amico da trent' anni, nel 1993 pensai che fosse il momento di passare un po' di tempo con lui.
Sono andato nel suo monastero, gli sono stato vicino, poi, senza traumi, gli ho chiesto il permesso di tornare alla mia altra vita. Ho indossato l' abito del monaco ma non ho mai cercato una nuova religione, sono sempre stato felice della mia.
LEONARD COHEN 1
Quella era la forma che il mio maestro aveva scelto: per studiare con lui era appropriata e direi naturale. Ma nello zen non c' è affermazione né negazione di Dio, e dunque non c' è mai stato alcun conflitto con la mia vecchia religione».
Parlammo di ispirazione e lui ripeté una delle sue frasi proverbiali: «Se sapessi dove nascono le belle canzoni, ci andrei più spesso»; del figlio musicista: «Gli hanno chiesto: è difficile essere figlio di Leonard Cohen?
JONI MITCHELL
E lui: non saprei, Leonard Cohen è più che altro mio padre. Buona risposta»; di The Future : «Era un manifesto geopolitico demente, ciò che il cuore potrebbe scrivere se gli si chiedesse di scrivere un manifesto geopolitico. Lo rifarei?Ora sono pacificato». Tanto pacificato da concludere, con un sorriso: «Hanno scritto che ai miei concerti dovrebbero distribuire le lamette per chi si vuole tagliare le vene. Non hanno del tutto torto, a volte so essere deprimente».
VENDITTI COHEN MITCHELL JONI MITCHELL FUMA
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