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    LE NOTTI MAGICHE DI PAOLO VIRZI’ – "L’AMBIZIONE DI FARE CINEMA, LA PROVINCIA NON TE LA PERDONA. FORSE ANCHE PER QUELLO CERCAI ROMA" - GLI ANNI AL CENTRO SPERIMENTALE ("ODORI DI CIBO DA ASPORTO E DI PIEDI") IL TE’ A CASA BERTOLUCCI (“MA IO NON MALATO, CHE LO BEVO A FARE”) - "IL CINEMA È STATO UN MODO PER NON SMETTERE DI GIOCARE E SOPRAVVIVERE ALLA VITA. L’HO SFANGATA? ANCORA NON LO SO" - VIDEO


     
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    Malcom Pagani per Vanity Fair

     

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    Figlio di un carabiniere e di una cantante, cresciuto «in mezzo a un bel cespuglio di trucidi» nel quartiere Sorgenti Corea di Livorno, padre di alcuni «pretenziosi spettacoli teatrali in cui per sembrare vecchio mi cospargevo di borotalco i capelli» e parente stretto di una gavetta in cui ai primi spot per Telegranducato «Ottica Mugnai, una questione di stile, solo in Piazza Attias» si alternava l’aspirazione della fuga, Paolo Virzì incontrò la famiglia che lo avrebbe definitivamente adottato soltanto a 21 anni.

     

    Dopo aver scorto una Roma composta e commossa nel giorno dei funerali di Berlinguer, scoprì il suo vero volto qualche mese dopo, nel 1985, entrando al Centro Sperimentale di Cinematografia: «Non sapevo neanche dove dormire e mi fermai in una pensione a due passi dalla Stazione Termini. Le prostitute nigeriane che fumavano erba nei corridoi. Le puttanone romane per strada. Un’aria torbida e meravigliosa e un bailamme felliniano che mi fecero subito sentire in una pagina di Bukowski. Ero arrivato a Los Angeles. Ero Arturo Bandini  a Bunker Hill. Ebbro di una mitomania che da ragazzo di provincia, con il sogno di evadere dal piattume di un’esistenza prevedibile e ordinata, si ubriacava finalmente di una metropoli che sembrava piena di promesse licenziose e possibili trappole che mi eccitavano e mi facevano battere il cuore».

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    Con sensazioni, ricordi e «pagine di vecchi quaderni piene di appunti e disegni» raccolti all’epoca, in attesa di vedere il nuovo lavoro di Checco Zalone che il regista livornese ha sceneggiato, Paolo Virzì ha realizzato uno dei suoi lavori più riusciti, Notti magiche. Storia di tre ragazzi finalisti del Premio Solinas catapultati senza preavviso nel mondo del cinema romano di inizio anni ’90 con il desiderio di emulare Monicelli, Scola, Pontecorvo e Fellini. Storia di iniziazioni sentimentali e declini, venerati maestri e soliti stronzi, fortune e disgrazie, ambizioni, freddure, omicidi e albe aggirate al ritmo delle discussioni, delle trattorie fumose e dei tasti battuti fino allo spasimo sulla Lettera 35. Dentro, come in tutti i film di Virzì, lacrime, cattiverie, passioni e sorrisi. Il piano sequenza della vita. «Avevo voglia di raccontare quel sentimento di allora perché è un sentimento che mi è rimasto dentro. Forse è solo la nostalgia di uno che sta diventando un vecchione, come quelli lì». 

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    Con rispettosa ironia, in Notti magiche l’omaggio ai maestri di ieri è dichiarato.

    «La molla che fa scattare la voglia di raccontare ha sempre a che fare con un debito personale, con la riconoscenza, con un sentimento intimo. È chiaro che certe immagini di quella stagione euforica e ribalda tornano ancora a farmi visita in forma di sogni o incubi minacciosi, così come è chiaro che nei confronti di quei maestri alla cui corte entrammo di soppiatto, pulsi un debito di riconoscenza e che il film stesso sia un atto d’amore e di gratitudine nei confronti di quel cinema, uno dei fenomeni di maggior rilievo dell’Italia contemporanea».

     

    Non solo, però.

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    «Non solo. Perché se da un lato avvicinarsi a quel mondo significava e significa adesione al mito, dall’altro quella devozione si nutriva  e si nutre di altri sentimenti. Viste da vicino certe divinità inarrivabili rivelavano la loro natura malconcia, disperata e spaventosa».

     

    Quindi?

    «Quindi esisteva un conflitto generazionale e Notti magiche è anche un atto liberatorio da quel debito prezioso, ma ingombrante che tutti noi di quella generazione abbiamo verso quel cinema con punte umoristiche e dolcemente canzonatorie. C’erano questi magnifici vegliardi che dal Neorealismo alla commedia avevano coperto tutti gli spettri del racconto e c’eravamo noi che ci rendevamo conto che quell’ancien régime dagli onori così evidenti e opprimenti fosse anche stanco, disincantato, disilluso e bisognoso di sangue giovane da sacrificare sull’altare dell’immortalità. Ho voluto ricostruire quel clima per certi versi ammaliante e per altri ridicolo anche perché il periodo in cui è ambientato il film, durante il Mondiale di calcio del 1990, segna una cesura. Di lì a poco i maestri smisero di lavorare davvero e con il loro tramonto, tramontò anche l’Italia che eravamo stati abituati a conoscere fino ad allora».

     

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    È un film autobiografico?

    «Potrei risponderle che è sempre stato così. Che da Ovosodo fino a Caterina va in città e La prima cosa bella mi è accaduto di rielaborare e rievocare elementi biografici o autobiografici, intenzioni, bugie e ricordi perché il mio mestiere è esattamente questo. Prendere cose della mia vita e delle persone che conosco e metterle in scena. Fellini diceva: “Bisogna raccontare le cose che uno conosce”».

     

    Lei, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, gli altri autori di Notti magiche, l’avete fatto.

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    «E le abbiamo trasformate in qualcos’altro. È bello che questo materiale sia stoffa utile a cucire l’abito con disinvoltura e licenza di alterare i contorni, tanto è vero che abbiamo mantenuto qualche nome e qualche cognome reale nelle personalità evocate da lontano, ma al momento di fare nostri certi personaggi centrali, quei nomi li abbiamo cambiati mescolando tratti e peculiarità di tante anime diverse».

     

    Ricordi di quegli anni tra lezioni al Centro Sperimentale e incontri?

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    «Febbrili. Odori di cibo da asporto e di piedi. Di alberghetti in cui dividere con le mani il pollo acciuffato in rosticceria. Di vecchie automobili usate dai colori improbabili con cui fendere la città da un lato all’altro.

     

    Di straniamento quando, trascinato da Francesca Marciano a casa Bertolucci, vedevo gli astanti bere il tè. “Ma io no malato”, mi dicevo, “che lo bevo a fare il tè? Mica ho l’influenza”. La sensazione dei 21 anni, del tempo in cui non hai nulla da perdere, della straziante inadeguatezza della mia età, della boria che davanti ai grandi discorsi teorici dei miei compagni d’avventura mi faceva dire: “Per realizzare un buon film servono un attrezzista e una buona storia”. Notti magiche, in quel senso, è una nemesi. Ho fatto un film tutto a modino. Le luci. L’estate girata in pieno inverno. Lo storyboard. Scritto e girato con perizia, rompendo i coglioni ai collaboratori: “Studiatevi la fotografia di Tonino Delli Colli, non faremo un film in agosto con gli esterni color cacarella, gli attori col trucco che cola e le solite 18 comparse che fanno finta di camminare”».

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    Nel suo primo film, Paso Doble, a preoccuparsi di armare un bilancio generazionale erano quattro ventenni. Come i protagonisti di Notti magiche.

    «C’era scritto film e per convenzione lo chiamavamo film, ma non era neanche un film. Era un’ingenuità totale l’operazione intera. Organizzammo una sola proiezione in un cinema livornese stipato di cugini di terzo grado e parenti lontanissimi e io fuggii da un’uscita laterale non appena partì la prima inquadratura. L’ambizione di fare cinema, la provincia non te la perdona. Forse anche per quello cercai Roma, uno stagno diverso in cui nuotare, la cesura netta con l’ambiente originario».

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    Come ci arrivò?

    «Vedendo in tv una trasmissione Rai condotta da Monica Vitti in cui si parlava del Centro Sperimentale e tra una passerella e l’altra si mostravano i cortometraggi di alcuni giovani registi tra cui Francesca Archibugi. Fino ad allora, tra le proiezioni infantili che mi vedevano veterinario e quelle dell’età adulta (facevo il supplente e mi immaginavo insegnante con l’illusione che il maestro potesse procedere alla palingenesi morale del cittadino), a fare il cinema non avevo mai pensato seriamente. Invece scoprii l’esistenza di una scuola di cinema, e come migliaia di altri abitanti delle periferie del mondo mi sottoposi a orali e scritti. Incredibilmente mi presero.

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    C’era una borsa di studio da 650 mila lire al mese, la tessera per il cinema gratis, le meravigliose agevolazioni della Prima Repubblica in cui si spendevano soldi nell’istruzione accumulando forse debito pubblico, ma garantendo un ascensore sociale che oggi certamente non esiste più. Chi vince il concorso nel 2018 e supera selezioni durissime si ritrova a pagare una retta tutt’altro che irrilevante. Io non avrei potuto. Non avevo le tasche vuote, non le avevo proprio le tasche».  

     

    Nel film Roberto Herlitzka si chiama Fulvio e pensare a Scarpelli,   sceneggiatore della Grande guerra, uno dei suoi maestri, è inevitabile.

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    «C’è un po’ di Scarpelli – anche se Furio era più tenero di così –, un po’ di Zavattini con quell’ossessione per l’allieva prediletta e un po’ di Sergio Amidei che i giovani autori, proprio come il Fulvio di Notti magiche, li cacciava fuori dall’ufficio a spintoni».

     

    Che cos’è stato Scarpelli per lei?

    «Molto, se non tutto. Forse gli feci pena fin dal primo istante o forse era contento di avermi incontrato per poter finalmente tornare a mandare qualcuno a fare in culo. Aveva passato la vita a litigare felicemente con Age e quando mi vide al Centro, mi disse quasi subito: “Dopo le lezioni, cosa fai?”. Iniziai a frequentarlo e divenni allievo, galoppino, assistente, raccattafigli, garzone di copisteria, uditore alle riunioni di sceneggiatura. Però Furio, al contrario di alcuni suoi colleghi che usavano i ragazzi come “negri”, scrittori senza firma, i giovani li faceva firmare tutti. Era zavattiniano. Se osserva i titoli di testa di Ladri di biciclette si accorgerà che il copione lo firma una squadra di calcio. C’è stato un tempo in cui in certe botteghe, per una forma solidaristica tra gente molto squattrinata, bastava passare per caso e dire una battuta per ritrovarsi naturalmente padri di un capolavoro».

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    Il suo reale contributo ai copioni di Scarpelli qual era?

    «Al principio irrilevante, non c’era riga che non venisse riscritta. Mi usava per dare vita a match dialettici. Ci insultavamo e passandoci vicino sembrava fossimo a un passo dall’ucciderci, ma in realtà lavoravamo divertendoci fino alle lacrime».

     

    «Cos’altro c’è da raccontare», dice Fulvio nel film, «se non questa cosa bellissima e terribile del tempo che passa?».

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    «Ed è curioso che a raccontarlo in forma soggettiva, in Notti magiche, siano tre ventenni di estrazione diversissima, affratellati e al contempo rivali. Una ragazza romana di buona famiglia, considerata dai parenti una disadattata appassionata di astrazioni inconcludenti e di attori francesi, un siciliano amante “del rigore filologico ed erudito” ma incline a tradirlo con l’ambizione corrotta dell’intrattenimento, e un figliolo degli operai di Piombino arrapato e impertinente. Attraversare questa storia con i loro occhi pieni di innocente candore, ma anche di aggressiva irriverenza, è stato divertente».

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    Come ha trovato i tre protagonisti?

     

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    «Abbiamo visto un migliaio di ragazzi e alla fine abbiamo scelto quelli che ci sembrava portassero dentro gli elementi che cercavamo. La poesia di essere dei fuori sede e degli appassionati sprovveduti. Dirigerli ha rappresentato un particolare godimento. A vent’anni l’attore ha una totale disponibilità a farsi manovrare, a farsi guidare e consigliare. Dopo, molto meno. Diventano delle adorabili rotture di palle, gli attori, in un secondo tempo».

     

    Il ruolo del produttore è interpretato da uno strepitoso Giannini.

     

    «Io, Piccolo e Archibugi volevamo disegnargli addosso un vestito disperato e ilare. Dentro il produttore Saponaro ci sono i tratti del Vittorio Cecchi Gori post Rusic, come di tanti altri produttori. Abbiamo creato delle maschere. Abbiamo giocato tra invenzione e realtà». 

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    È soddisfatto il 54enne Virzì di Virzì stesso?

     

    «Oddio che domanda intima, mi fa arrossire. (Ride). Diciamo che a seconda dell’umore posso essere molto contento o molto insoddisfatto. Da ragazzino pensavo che l’arte potesse cambiare il mondo, con il tempo i miei slanci sono diventati più tenui e si sono fatti strada ruvidezza e disincanto. Il cinema è stato un comodo ripiego. Una maniera per non smettere di giocare e sopravvivere alla vita. L’ho sfangata? Nonostante l’età, ancora non lo so».

     

    Provi a rispondersi.

     

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    «La cosa allarmante e affascinante di questo mestiere è che non lo sai mai fino in fondo. Non hai mai la sensazione di accomodarti per sempre. E per questo noi registi siamo esseri così vulnerabili e terribili, sempre alla ricerca di rassicurazioni, spesso infrequentabili. In questo eterno precariato rimaniamo immaturi e fragili. Vivi, quindi.  Comunque vivi. Con ancora una storia da raccontare».

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