Antonio Gnoli per “la Repubblica”
Più che uomo di altri tempi Fabrizio Dentice è un signore che si nasconde nel tempo.
Fabrizio Dentice
In quella lunga durata che inizia con il 1919. È la sua data di nascita. Ma anche della rinascita: per l' Italia e l' Europa: «Ovviamente non avevo nessun sentore di cosa fosse stata la Prima Guerra, quel conflitto che non eravamo stati capaci di scongiurare e che avrebbe provocato numerose vedove, orfani e mutilati. Retorica e rancori che sarebbero sfociati nel fascismo. E dai racconti, recepiti, ormai bambino, mi sembrava tutta una insensatezza cui ho reagito sostanzialmente tappandomi le orecchie. Forse per questo credo di avere avuto un' infanzia felice, un' infanzia, potrei dire, sorda».
Se si guarda la cosa dal punto di vista del bambino si fanno diverse scoperte. La prima è che Fabrizio ha conservato un certo candore antico. Che pensa e ragiona come una persona che crede fino a un certo punto ai doveri dell' adulto. Che, come il celebre scrivano Bartleby, ha in molte occasioni pronunciato la famosa frase: «Preferirei di no».
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Nella casa milanese dove vive, centrale e appartata, c'è una piacevolezza un po' vecchiotta, tipica nelle cose che lentamente si deteriorano, ma mai del tutto. Un'antiquata cyclette è piantata tra i libri e gli oggetti. Nessuna pretesa di designer. Lo sguardo cade su alcuni libri: un saggio di Heine sulla Germania, Conversazioni con zio Willie e una raccolta di poesie di Nelo Risi.
Sei un lettore di che tipo?
«Un tempo avrei detto moderatamente compulsivo. Oggi leggo di rado e un po' a casaccio. Ho ripreso in mano le poesie di Risi. Non sono male. L'ho conosciuto bene Nelo. Era un cinico simpatico. Viveva con una scrittrice ebrea (Edith Bruck, l' autrice di Andremo in città, diventato anche un film di Risi nel 1966, ndr) che aveva ancora il marchio di Auschwitz su un braccio. Lei ne era, come posso dire, orgogliosa. Io sentii una specie di vergogna. Penso a come si diventi ottusi e miserabili di fronte agli effetti della propaganda. Da qualsiasi parte venga».
per gentile concessione di Giampaolo Lomi GUALTIERO JACOPETTI
Tu come l'hai combattuta?
«Disinteressandomene, o vedendone gli aspetti caricaturali. Non sto alludendo al nazismo ma al fascismo che ho conosciuto nei suoi aspetti ridicoli, ma poi anche tragici. Me ne sono tenuto alla larga. Nella convinzione che quella baldoria di conformismo sarebbe passata».
È durata un ventennio.
«Lo so. E so anche che avrei dovuto schierarmi, magari imbracciare il fucile e combatterlo. Ma non l'ho fatto. Posso avanzare una miriade di spiegazioni. Ma non servirebbero. Come diceva Paolo di Tarso, ciascuno nasce con un carisma. Io non avevo stampato in fronte quello dell' eroe. Però posso aggiungere una cosa: ho avuto una vita bellissima che non mi sono meritato».
per gentile concessione di Giampaolo Lomi GUALTIERO JACOPETTI
Perché non la meritavi?
«Sono stato protetto in tutto. Ho avuto genitori che mi hanno adorato. Cresciuto con il culo nel burro. Mio padre voleva che diventassi ambasciatore. Mi laureai in legge il primo giorno di guerra. Pronto per la diplomazia, mi iscrissi a scienze politiche. Naturalmente fui arruolato sotto le armi: allievo ufficiale a Moncalieri. Durante la guerra venni destinato a Nettuno. Vi rimasi per quattro anni. Più protetto di così!».
Hai evitato la parte dura della guerra.
«Come un privilegiato. Mi venne anche l'idea, grazie alla conoscenza delle lingue, di diventare ufficiale interprete. Feci un corso a Torino, durante la battaglia di El Alamein, e venni poi spedito in Sardegna come interprete di inglese, francese e tedesco».
Dove avevi appreso le lingue?
«Da bambino avevo avuto varie tate straniere che me le insegnarono».
BERNARDO VALLI 2
Insomma pur di non andare al fronte ti inventasti di tutto.
«Morire per chi: per un re che era scappato, per un esercito senza vocazione, per un dittatore che ci aveva sprofondati nella tragedia? La sola volta che mi trovai nel mezzo di un conflitto a fuoco ero con un manipolo di soldati sopra un camion. Tornavamo da Capo Caccia dove c'era stato un saccheggio».
Cosa accadde?
«Al ritorno il camion si ruppe. Una formazione tedesca cominciò a spararci addosso. Non sapevamo che fare. Difendersi? Scappare? Alla fine capii che il tubo della benzina si era spezzato. Rovistai tra le cose che avevamo sequestrato e vidi una scatola con dentro un enteroclisma. Mi venne l' idea di sostituire il tubicino e così riuscimmo a ripartire. Credo che quel clistere sia stato l' atto più eroico della mia guerra».
Quando la guerra finì cosa facesti?
Bernardo Valli
«Mio padre insisteva su questa storia della diplomazia. Gli dissi chiaro e tondo che non mi interessava, ma una cosa l'avrei fatta: lo scrittore. Intendi il giornalista? Mi chiese. Essendo un avvocato con molte conoscenze mi raccomandò per un posto al Giornale d'Italia».
E ti presero?
«Sì, vi rimasi per vari anni, facendo un po' di tutto. Alla fine, disgustato dalle posizioni di destra che il giornale aveva, me ne andai. La mia esperienza di cronista parlamentare mi permise di conoscere e fare amicizia con un po' di persone. Passai prima a un settimanale nuovo fondato da Gualtiero Jacopetti e poi, nel 1956, all'Espresso. Ero sposato e avevo un figlio. Dopo qualche anno di apnea, grazie alla conoscenza delle lingue, fui spedito in varie parti del mondo. Mi accorsi di non capire nulla di quello che succedeva».
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Nel senso?
«Ricordo che fui inviato in Egitto per la Guerra dei sei giorni. I giornalisti per lo più stazionavano all'Hilton del Cairo. C'era grande agitazione. Si scoprì improvvisamente l'efficienza dell' esercito israeliano. Ma io non capivo nulla del "mondo arabo". Per fortuna c'era Bernardo Valli che pazientemente mi spiegava tutto».
Insomma continuavi ad essere un inetto.
«Inetto è una parola che mi piace, mina il culto dell' efficienza. La disperazione montava quando mi mandavano a intervistare qualche personalità. Non sapevo che cosa domandare. Avrei parlato volentieri del tempo, delle donne, dei luoghi, ma di fronte a questioni specifiche mi bloccavo. Un incubo. Ho odiato il mio lavoro. Ti racconto un episodio al limite dell' umiliazione».
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Dimmi.
«Mi telefona Arrigo Benedetti e mi dice: è di passaggio a Roma un importante politico francese. Chi? Chiedo. François Mitterrand, dovresti intervistarlo. Mi afferrò un' ansia pazzesca. Ci vedemmo in ambasciata. Convenevoli. Dopo di che cominciai a guardargli la testa. Una bella testa severa, più romana che gallica. Con l'allure di un primo ministro, anche se non lo era ancora. Pensai: e mo' che gli chiedo. Silenzio. Imbarazzo. Poi come se niente fosse: " Aimez vous Rome?"
Mi sarei ucciso. Cominciò a guardarmi con profondo disgusto. Ma chi mi è capitato, deve aver pensato. Alla fine parlò solo lui. Forse impietosito dal mio «Quando lasciai l'Espresso, perché avevo ricevuto un' offerta dal mensile Panorama, andai da Benedetti e gli dissi: direttore mi dimetto dal giornale, però se sei d' accordo conserverei la piccola rubrica di antiquariato. Mi firmavo Oberon. A Benedetti non parve vero che andassi via».
Ti lasciò la rubrica?
«Neanche per sogno, la passò alla figlia che la firmò Titania».
Non ti chiedo come andò a "Panorama", tanto lo immagino.
MUSSOLINI HITLER
«Eravamo una redazione con alto tasso di analfabetismo. Ma tutti conoscevamo l'inglese. Il mensile era stato fatto in accordo con gli americani. Non decollammo e, a un certo punto, Nantas Salvalaggio che lo dirigeva fu allontanato. Al suo posto chiamarono Leo Lionni. Diventammo amici. Mi raccontava, lui che era nato ad Amsterdam, del padre che intagliava i diamanti. Furono le conversazioni con uno degli artisti e designer più intelligenti che abbia conosciuto».
Ma qualche volta lavoravi?
«Certo, ero capo redattore centrale. Dividevo la mancanza di passione per il giornalismo con il grande coinvolgimento per la caccia. Mi ero procurato un cane da punta abbastanza fessacchiotto. Mi venne l'idea di dressarlo. Comprai delle quaglie vive che liberavo in un giardinetto davanti all'università e poi speravo che Leo - il nome al cane lo avevo dato in omaggio a Lionni - familiarizzasse con i volatili. Fu un mezzo fiasco. Nei mezzi fiaschi sono invecchiato dolcemente».
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Meraviglioso.
«Tu trovi?».
E le donne, parlavi prima di una moglie.
«Mi innamorai perdutamente di Maria Livia Serini. Eravamo entrambi sposati. Fuggimmo in Spagna. Per un po', come due fuggiaschi, facemmo perdere le nostre tracce. Tornammo in Italia separandoci dai rispettivi consorti. A mia moglie lasciai una bella casa e un conto in banca. Avevo la coscienza tranquilla. Ricordo che il giorno della separazione, il marito di Maria Livia tentò di strangolarmi in ascensore».
Non l' aveva mandata giù.
Messalina e Nerone
«No, ma sai la vita è strana perché dopo qualche tempo mi fu molto grato. Sposò una ricca ereditiera e visse felice con i suoi benefit matrimoniali. A volte ci invitava l' estate sul suo yacht. Fu proprio nell' estate del 1981 che Maria Livia morì per un tumore e scoprii, quello che non avevo mai provato in vita mia, la forza devastante del dolore».
Cosa rappresentò quel dolore?
«Un labirinto dal quale uscire il prima possibile. Non ero preparato. Fu allora che cominciai a dedicarmi seriamente alla scrittura e nacque il mio primo romanzo Egnocus e gli Efferati, che è un po' la storia mia e di Maria Livia. Poi arrivarono gli altri: d' España, Messalina ».
Anche le imperatrici dissolute.
«In realtà non è quella Messalina, bensì il nome di una cavalla. Anche questa è la storia del mio innamoramento per una donna con cui ancora vivo: Antonia Iannone. I miei romanzi sono degli incontri con la mia vita e forse con la mia morte procrastinata».
FABRIZIO DENTICE - PERROS DE ESPANA
Hai anche un coté di critico d' arte.
«Sono come quei picari in cerca di avventure. I pittori offrono molti spunti».
Cosa intendi per morte procrastinata?
«Ho avuto una vita lunga, oltre ogni aspettativa, scansando le sofferenze fisiche. Se devo cercare una ragione in tutto questo penso di poterla trovare nel fatto di non essermi mai preso sul serio. Vivo, come ho sempre fatto».
Cioè?
«Esco la mattina presto, prendo il caffè, compro i giornali, faccio la spesa. Antonia vive in un' altra casa. A mezzogiorno mi cucino, mangio e vado a letto. Fino alle cinque. Poi un tè, qualche libro e un po' di televisione con accanto un Martini o un Margherita. La notte dormo male. E siccome non riesco a leggere, penso».
A cosa pensi?
FABRIZIO DENTICE - MESSALINA
«Che il futuro ci ha fregati. Non parlo di me che dopotutto ho avuto una vita bella. Neppure di vecchie zie e di nonni, ma di qualcosa che investe le generazioni che verranno. Dei tantissimi che non ce la faranno. Pensa: il mito della velocità ha come contrappasso le vittime della lentezza. Oggi basta un attimo per diventare un dinosauro, scaduto come uno yogurt».
Dov' è finito il tuo ottimismo?
«Dove vuoi che sia finito? Come tutte le cose che non puoi usare in qualche zona buia del tuo magazzino interiore. Tecnicamente rimuovi. Il futuro ci riguarda sempre meno. Il passato, il passato boh».
Credo che dopo una certa età il passato non sia mai passato del tutto.
«Vuoi dire che è la sola cosa che mi resta?».
Ti restano le cose che hai fatto e quelle che hai scansato e tutte le cose belle alle quali la tua memoria non rinuncia e quelle brutte che ha rimosso.
«Mi fai venire in mente, visto che è l' anno in cui sono nato, una vecchia canzone in cui si dice: "Nel 1919 vestita di voile e di chiffon...". La ricordi?».
È piuttosto famosa, parla di una donna incontrata per un attimo e mai più rivista.
«Ecco, quella donna non è una donna o non è solo una donna. È l' immagine di che cosa è stata la gioventù per ciascuno di noi: un attimo e, paf, sparisce. E gli anni diventano insondabili e non c' è nostalgia che li curi. Si vive, come avrebbe detto Baudelaire, in un' oasi di orrore e in un deserto di noia».
Che cosa non ha funzionato?
«Manca il vero punto di appoggio. Il fatto di avere milioni di punti di appoggio è come non averne nessuno. Dove metti le tue certezze, ammesso che te ne restino? Abbiamo un' enormità di mezzi tecnici a disposizione ma siamo diventati più poveri, più incerti, più insicuri. Mi chiamo fuori. Mi tap