Stefano Lorenzetto per “la Verità”
il premiolino 2016 giulio anselmi con moglie
Mentre Google, nel solo 2015, ha raccolto pubblicità su Internet per 62 miliardi di euro, e Facebook per quasi 16, i quotidiani italiani negli ultimi cinque anni hanno perso 1 milione di copie, 4.500 posti di lavoro e 2 miliardi, cioè un terzo del loro fatturato. Più che con Giulio Anselmi, che si divide fra Roma, dove lavora, e Milano, dove abita, bisognerebbe pertanto affrontare l’argomento con Scifoni o con Fusetti, specialisti di pompe funebri nelle due capitali d’Italia. Si dà però il caso che Anselmi, 71 anni, genovese di Valbrevenna, oltre a essere stato presidente della Fieg (Federazione italiana editori giornali), sia anche il giornalista che ha diretto il maggior numero di testate di primaria importanza: nell' ordine, Il Mondo, Il Messaggero, l' Ansa (da sette anni è presidente dell' agenzia di stampa), L' Espresso, La Stampa.
giulio anselmi
È stato anche prima vicedirettore e poi condirettore del giornale maggiormente diffuso, il Corriere della Sera, e in una delle stagioni più torride, quella di Tangentopoli e della guerra nel Golfo. In realtà era il direttore de facto, anche se lo sapevano solo gli addetti ai lavori, perché il direttore de iure, Mikhail Kamenetzky detto Misha, al secolo Ugo Stille, classe 1919, era spesso negli Stati Uniti oppure, quando si trovava a Milano, se ne stava rintanato nel suo ufficio a guardare in tv i cartoni animati giapponesi, così narrano le leggende di via Solferino 28.
«Questo non potrei dirlo, ma in effetti il video esercitava su di lui un forte fascino», ammette a denti stretti Anselmi, che da gentiluomo qual è non vorrebbe soffermarsi su questo svago infantile. «Di sicuro, in sei anni non fece mai una prima pagina».
Non è poi una lacuna così rara, fra i direttori.
«Al giornale ci stava poco. Alle 13 veniva a mangiare in mensa. Poi ritornava a sera inoltrata. La sua viltà nei confronti di Bettino Craxi e del Comitato di redazione m' irritava parecchio. Però era un uomo di grandissima intelligenza. Fu lui ad arruolare come vignettista Emilio Giannelli. Ho il rimpianto d' averlo maltrattato».
giulio anselmi
Addirittura. Lo bastonavi?
«Peggio. Ricordo che un sabato mi chiese: "Cosa posso fare?". E io gli risposi: potresti andare a comprarmi un gelato. Detto al direttore del Corriere da un ragazzetto di 40 anni o poco più, era da impiccagione. Di lì a mezz' ora, Stille venne nel mio ufficio con il gelato. Questo gesto mi umiliò profondamente, al punto che mi dissi da solo: sei proprio uno stronzo».
A che età avvertisti la vocazione per il giornalismo?
«Tardi. Laureato in giurisprudenza, per un anno e mezzo feci pratica legale da un avvocato. Fu un mio amico attore a convincermi a scrivere per la pagina dei giovani sul Corriere Mercantile, che poi fu soppressa per ordine del ministro dc Paolo Emilio Taviani, potentissimo nella Genova dell' epoca».
Ma il giornalismo è un mestiere, una professione o una missione?
romano prodi e giulio anselmi
«Un mestiere. Gli aspetti artigianali prevalgono, costruire le pagine richiede un' abilità quasi tattile. Poi vi sono momenti in cui, senza colpa e senza merito, si diventa depositari di strumenti che ne fanno una missione».
All' inizio della carriera ti vedevi già direttore?
«No, la mia massima aspirazione era quella di prendere un giorno il posto di Gianni Migliorino, inviato speciale del Corriere dalla Liguria».
Ricordi un modello di giornalista al quale t' ispirasti?
«Piero Ottone, direttore del Secolo XIX. Nonostante come " in guardia, perché l' indipendenza si paga. E lo riscrisse quando mi capitò di pagarla».
Cioè quando?
giulio anselmi
«Quando dovetti lasciare la direzione del Messaggero. Era arrivato un editore, Francesco Gaetano Caltagirone, che mi disse con onestà intellettuale: "Lei è abituato a fare di testa sua. Io invece voglio che il mio giornale faccia di testa mia"».
Si dice che tu abbia un carattere d' acciaio, temprato alla dura scuola della vita. Rimasto orfano di padre a 11 anni, dopo che già ti era morta la madre, fosti affidato al cardinale Giuseppe Siri, amico di famiglia, che diventò tuo tutore. Quando l' arcivescovo di Genova veniva già dato per successore di Pio XII nel conclave del 1958, ti preparasti addirittura a traslocare in Vaticano con la tua sorellina e una governante che odiavi, perché la ritenevi la spia del porporato. Sono esatte le mie informazioni?
«Sì, tutte esatte. Per fortuna invece fu eletto Giovanni XXIII. Altrimenti avrei corso il rischio di entrare nella schiera dei vaticanisti, figure che aborro: salvo rare eccezioni, sono giornalisti piegati in due. Il che non mi ha impedito di scrivere per circa un mese, tutti i giorni, un editoriale sulla Repubblica, raccontando il conclave da cui uscì papa Ratzinger”.
RENZI BERLUSCONI
È vero che il rapporto con il cardinale Siri fu sempre assai conflittuale?
«Mi sposò nella cappella dell' arcivescovado e lì battezzò anche i miei due figli. Impossibile non litigare con una persona che considerava la psicoanalisi un modo per frugare nei meandri più sordidi dell' animo umano».
Non aveva tutti i torti: la psicoanalisi è una confessione senza l' assoluzione.
«Forse soffriva di questa concorrenza indebita. Ma voleva anche impedire alle donne d' indossare i pantaloni».
Questa la capisco meno.
«Tuttavia fu spesso ingiustificatamente criticato. Aveva molte qualità. Non dimentico che quando i portuali di Genova, categoria privilegiatissima, si scontrarono con i politici e gli imprenditori, chiesero di avere Siri come mediatore e difensore».
RENZI VERDINI BERLUSCONI
È vero che rimase addolorato quando scoprì che leggevi di nascosto L' Espresso, manco ti avesse colto a trastullarti con le rivistine porno?
«È vero e fu una delle cose per le quali si offese di più».
Quindi quando ne diventasti direttore ti avrà scomunicato dal cielo.
«Qualche saetta deve avermela mandata. Io sono fortemente laico. Lavorando a Roma, ho toccato con mano quanto alcuni poteri, dalla massoneria alla Chiesa, siano sottovalutati nel resto del Paese. Ma ho anche conosciuto esempi luminosi di cardinali, dei quali sono stato amico».
Citamene uno.
«Achille Silvestrini. Non potrei dire altrettanto di Camillo Ruini».
È vero che Siri ti vietò di comprarti l' automobile e persino il televisore?
CARDINALE CAMILLO RUINI
«È vero. Ma la motivazione, almeno per l' auto, non faceva una grinza: mi obiettò che, se avessi investito qualcuno, egli si sarebbe sentito responsabile».
È vero che vi riconciliaste soltanto dopo che l' arcivescovo rinunciò al governo della diocesi per raggiunti limiti di età? Ed è vero che andasti a salutarlo e lo trovasti con uno scialletto sulle spalle, come la madre mummificata di Norman Bates in Psyco, il film di Alfred Hitchcock?
«È vero. Era ancora arcivescovo emerito, ma costretto a celebrare messa in una chiesetta alla periferia di Nervi, il che per lui, abituato nei pontificali a scendere in cattedrale con una cappa magna color porpora munita di uno strascico di molti metri, doveva rappresentare una pena indicibile, " pena. Ho sempre avuto simpatia per i perdenti».
È vero che il suo vecchio autista, Ugo, ti confidò: «Sua eminenza non è più la stessa persona, temo che abbia smesso di pregare».
antonio di pietro magistrato
«È vero. Con Ugo avevo un rapporto di grande confidenza. Quando combinavo qualche marachella, era lui che veniva a prelevarmi a scuola e mi portava in arcivescovado per essere castigato. Di norma mi tenevano segregato per tre giorni nell' alloggio dei cardinali ospiti».
E tu quando hai smesso di pregare?
«Nonostante abbia sempre manifestato il mio fastidio per molti preti e per i beghini, ho sempre pregato e continuo a pregare».
Quindi in Dio ci credi ancora.
«Credere in Dio...». (Sospiro).
«Sì, credo in Dio. Ma non so esattamente quale sia la percentuale superstiziosa di questo mio credere».
Perché non ti hanno mai dato la direzione del Corriere della Sera, che avresti strameritato?
ANTONIO DI PIETRO
«Per le scelte che feci ai tempi di Mani pulite, ha scritto qualcuno. Stille in quel periodo era negli Stati Uniti, malato, non raggiungibile. Decisi di sponsorizzare Antonio Di Pietro e il pool della Procura per convinzione e per convenienza, sicuro che i lettori, se non l' avessi fatto, sarebbero venuti a spaccarci i vetri delle finestre. Forse presi troppo sul serio i magistrati e ci misi pure qualche elemento di crudeltà.
A distanza di tanto tempo mi rendo conto che si trattò di un innamoramento non perfettamente riflettuto».
Suona come un' autocritica.
«Fui ingeneroso. Sbattei in prima pagina la foto di Francesco Paolo Mattioli, direttore finanziario della Fiat, mentre usciva dal carcere di San Vittore reggendo in una mano un sacco nero della spazzatura con dentro i suoi effetti personali. Me lo sarei potuto risparmiare. Ma il clima era quello.
cesare romiti
Una sera l' intero establishment, da Cesare Romiti a Marco Tronchetti Provera, era a cena al Savini. Entrò nel ristorante il procuratore capo di Milano. In sala scese un gelo impressionante. E Francesco Saverio Borrelli, che è dotato di una qualche profonda malvagità, batté i tacchi e li squadrò con un impercettibile sorriso sulle labbra. Erano tutti morti di paura».
Silvio Berlusconi si riferiva a te - all' epoca direttore della Stampa- quando il 2 dicembre 2008, da presidente del Consiglio, durante una visita in Albania ringhiò: «Certi direttori cambino mestiere»? Che gli avevi fatto?
«A me e a Paolo Mieli, direttore del Corriere. Avevo pubblicato un pezzo sulla sua guerra con Rupert Murdoch per Sky. Prima c' era stato fra noi un pranzo di rappacificazione, infruttuoso. Non so se abbia chiesto la nostra testa. So che pochi mesi dopo entrambi dovemmo cambiare mestiere: Mieli presidente di Rcs libri, io dell' Ansa».
ENRICO BONDI
Una volta mi hai confidato che da direttore del Messaggero tornavi a casa così stanco da sognarti tutte le notti, quasi con sollievo, di non risvegliarti più la mattina. Esageravi?
«No, è così. Arrivò come amministratore Enrico Bondi, un tagliatore di teste. Il giornale era in rosso per 30 miliardi di lire, sull' orlo della chiusura. Per mesi e mesi restai incollato alla scrivania, mangiando solo qualche tramezzino, in piedi, come i cavalli. Alla fine nessuno fu licenziato».
Ma Luigi Barzini senior non diceva che fare il giornalista è faticoso ma è sempre meglio che lavorare?
«Anche questo è vero. Non tutti i redattori si massacrano. Ho diretto testate dove arrivavano alle 16 senza nemmeno aver letto i quotidiani. Giornalisti trasportatori, li chiamavo, capaci solo di trasferire le notizie dalle agenzie alle pagine».
JOHN LAPO E GINEVRA ELKANN
Rinaldo Piaggio, l' imprenditore degli aerei da combattimento e della Vespa, teorizzava: «A chi possiede un giornale in realtà ne servono al massimo tre copie: una per sé, una per la moglie, se ce l' ha, e una, quella più importante, da mandare a Roma». Aveva ragione?
«Fosse ancora vivo, potrebbe ripeterla. Pochi editori badano alla qualità. Vogliono solo disporre di uno strumento al servizio dei loro interessi. Era così anche per Gianni Agnelli, editore della Stampa. Solo che agiva con più eleganza di altri».
john elkann presidente del gruppo fca
E con il nipote John Elkann come ti sei trovato?
«Avemmo due sole divergenze. La più spiacevole fu quando pubblicai una pagina intera, con richiamo in prima, sul fratello Lapo finito in overdose dopo una notte trascorsa con tre transessuali. Altre cose mi ha consentito di farle con eccesso di gentilezza encomiabile. Ma scommetterei che quando lascia la Stampa stappò una bottiglia di champagne”.
Presiedi un’agenzia di stampa che è percepita dalla nostra categoria come una sorta di Gazzetta ufficiale: se lo scrive l’Ansa, si va sul sicuro. Ma quale ruolo pensi che possa avere in futuro considerato che i giornali sembrano avviati verso un inesorabile declino?
«L' Ansa è, per importanza, la seconda agenzia d' Europa e la quinta del mondo. Avendola anche diretta, penso che possa continuare a essere un' interlocutrice del governo e delle imprese. Certo, fintantoché esisteranno le convenzioni che le consentono d' incassare soldi da Stato, Regioni, Comuni e altri enti pubblici, una pienezza di autonomia non ci potrà mai essere. Però fra bianco e nero sono possibili infinite sfumature di grigio. Ci sono modi e modi. Si può chinare un pochino il capo oppure mettersi a tappeto, di fronte al potere. Da questo punto di vista, l' Ansa avrà sempre una funzione di garanzia».
donald trump nigel farage
Visto che parliamo dei politici e delle loro pretese, fammi un pronostico: Matteo Renzi lo vince o lo perde il referendum costituzionale di questa domenica?
«Da giornalista osservo che tutti i sondaggi sono per il No. Ma sappiamo come sono andate a finire le previsioni con la Brexit e con Donald Trump.
Io credo che Renzi, con la sua arroganza, con il suo atteggiamento da Superbone (un personaggio dei fumetti apparso sul Monello negli anni Trenta, ndr), sia il miglior nemico di sé stesso. Però è anche vero che al Nord in tanti votano con il portafoglio e sono state diffuse, artatamente e no, molte voci sul fatto che una vittoria del Sì sarebbe preferibile per i nostri conti, benché l' Economist, l' altra settimana, abbia scritto il contrario, e stiamo parlando di una Bibbia, per l' informazione di settore. Insomma, ci andrei cauto».
farage trump
Chi è il politico più arrogante con il quale hai dovuto fare i conti da direttore?
«Bettino Craxi. Una volta mi telefonò sotto elezioni per dirmi che, se le avesse vinte, mi avrebbe buttato giù dalle scale del Corriere a calci nel sedere. Intanto lei provi a vincerle, replicai. Le perse. Un altro molto arrogante era Giovanni Spadolini. Nella stagione di Mani pulite fu raffigurato da Giannelli come un gigantesco cavallone con un pennino conficcato nella culatta. Il riferimento era ad Antonio Del Pennino, parlamentare processato per i finanziamenti illeciti al Pri. Il senatore a vita mi telefonò inferocito: "La farò pentire, Anselmi. Qualcuno le pagherà il sabato". In seguito, attraverso Giorgio La Malfa, pretesi le sue scuse. E Spadolini me le presentò, perché era un gentiluomo. Comunque ho litigato con tutti i presidenti del Consiglio, eccetto Romano Prodi, con il quale non sono mai andato oltre la divergenza di vedute».
GIOVANNI SPADOLINI
Chi o che cosa sta uccidendo i giornali?
«L' eccesso di sudditanza verso il potere. Il distacco dagli interessi dei lettori. E poi Internet: i ragazzi d' oggi preferiscono i display alla carta. Ci aggiungerei la codardia dei direttori. Uno di loro, piuttosto famoso e molto ossequente, mi ha confidato: "Sai, non avrei mai detto che un giorno sarei diventato direttore. Ma, siccome lo sono diventato, voglio restarlo"».
Le fusioni, come quella fra La Repubblica e La Stampa passata sotto silenzio, sono utili per salvare i giornali?
«Se una cosa simile l' avesse fatta il povero Berlusconi, sarebbe stato mazzolato da tutti. L' accusa di attentato alla libertà di stampa non gliel' a " " proprio non sapevo che cosa fare per contrastarla».
EDMONDO BERSELLI
All' Espresso inventasti un ruolo che non c' era mai stato nello staff di un giornale: assistente del direttore. E lo affidasti a un giornalista -scrittore geniale, il compianto Edmondo Berselli. Perché?
«Perché l' avrei voluto come vice ma, a riprova delle grandi porcherie di cui è capace la nostra corporazione, non po tei assumerlo, in quanto pubblicista anziché professionista. Allora m' inventai questo ruolo. Berselli lo avevo scoperto sulle pagine dell' edizione di Modena del Resto del Carlino. Lo facevano scrivere lì pensando che non fosse sufficientemente bravo per firmare sull' edizione nazionale, pensa un po'».
Al Corriere, dopo l' invasione del Kuwait, costringeste Oriana Fallaci a ritornare inviata speciale, spedendola nel Golfo Persico.
ORIANA FALLACI
«Non era sicura di essere ancora capace di fare la corrispondente di guerra. E siccome a dispetto delle apparenze era umilissima, come tutti i grandi professionisti, ogni mattina pretendeva di leggermi al telefono satellitare i suoi reportage, due intere pagine.
Essendomi allenato con una vecchia zia che mi chiamava spesso, dopo un po' appoggiavo la cornetta sulla spalla e intanto sbrigavo le altre incombenze».
E poi assumesti Tiziano Terzani, che aveva litigato con La Repubblica.
tiziano terzani
«Un personaggio sussiegoso. Ma diventammo amici. In quel periodo lui stava in Thailandia. Avevamo organizzato un viaggio insieme nel Laos. Sennonché mi fu offerta la direzione del Messaggero e dovetti rinunciare. Tiziano la prese malissimo. "Sei un coglione", mi rimproverò, "perché le direzioni vanno e vengono mentre i viaggi segnano la vita". Aveva ragione».
tiziano terzani
I giornalisti dovrebbero essere licenziabili all' istante, come in America, sì o no? Alessio Vinci mi ha raccontato che, quando fu assunto alla Cnn, sul suo contratto c' era scritto che poteva essere cacciato «for any reason or no reason», per qualsiasi motivo o nessun motivo.
«In Italia sarebbe una clausola pericolosa. La loro autonomia è talmente labile che, con la minaccia costante del licenziamento pendente sul capo, finirebbero per essere ancora meno indipendenti».
T'è mai capitato di dover licenziare qualcuno?
«No, anche se avrei avuto tanta voglia di farlo. Però ho tolto l’incarico a tre vicedirettori”.
Ma tu non dovevi diventare presidente della Rai?
alessio vinci per agon channel
«Sì, l’offerta mi venne da Luciano Violante, presidente della Camera. I vari Berlusconi, Fini e Casini erano d’ac - cordo. Ma i resti della sinistra dc no. Dissi: accetto solo se la designazione sarà votata all’unanimità. A togliermi le castagne dal fuoco provvide Av - venire, con un corsivo contro di me pubblicato in prima pagina. Qualche tempo dopo il direttore dell’epoca, Dino Boffo, mi confessò che aveva ricevuto “una precisa disposizione”, immagino dal cardinale Ruini, che, in quanto presidente della Cei, era il suo editore » .
Luciano Violante
Avresti ancora il fiato per accettare una direzione?
«La forza fisica sì, sento di averla ancora. Alla Stampa mi capitava di dover rifare il giornale alle 23, mentre i tre vicedirettori Giancarlo Laurenzi, Massimo Gramellini e Umberto La Rocca, molto più giovani di me, arrancavano spossati. Ma non credo che avrei l’intelligenza necessaria per tornare a fare il direttore. Sono troppo vecchio e non domino le tecnologie».
DINO BOFFO
Che cosa ti rimproveri dopo tanti anni passati alla guida dei giornali?
«Di aver umiliato le persone. Intendiamoci, la durezza è un’arma di comando necessaria. Ma la mortificazione è tutt’altra cosa. Mieli una volta mi biasimò per questo: “Il tuo principale difetto è che se una persona la consideri intelligente gli perdoni tutto, se invece ritieni che sia cretina può morirti davanti e non fai nulla per risollevarla”».
Ti senti responsabile del disastro Italia?
paolo mieli
«Ho fatto il direttore per circa 30 anni, nel corso dei quali il Paese è peggiorato sempre di più. Come faccio a non sentirmi un po’ responsabile? Certo che sì. Non siamo stati capaci di difendere i cittadini, cioè i nostri lettori. Ci siamo nascosti dietro argomenti miserevoli. Mi riconosco una sola attenuante: credo di non aver mai fatto il giornalista per conto di qualcuno o nell’inte - resse di qualcuno».