Estratto dell'articolo di Francesco Battistini per il "Corriere della Sera"
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Gaza mon amour. Quando il suo film sulla Striscia venne presentato a Venezia, il primo a recensirlo con entusiasmo fu il Palestine News, giornale di Hamas stampato e venduto a Gaza. In prima pagina, la foto del leader Ismail Haniyeh, poco sotto un titolo su «Gaza mon amour» e l’applauso a Maisa Abd Elhadi, star del cinema arabo israeliano.
Tre anni dopo l’amore per Gaza, e molto meno per Israele, ha tradito Maisa: l’attrice—cantante—influencer è stata arrestata lunedì per una serie di post pubblicati sui social. «Messaggi adatti a creare un clima d’odio e a incitare alla violenza», ha stabilito la polizia.
Maisa è stata ammanettata nella sua casa di Nazareth e portata davanti a un giudice: domani si decide del suo destino. Con lei è finita in caserma anche un’altra influencer, Dalal Abu Amneh: sarebbe ai suoi pensieri che Maisa s’è ispirata.
OFER SCHECHTER
Basta un emoji, per finire nei guai. Anche se l’attrice è già nota per le sue posizioni: nel 2021 era stata ferita in alcuni scontri con la polizia mentre manifestava contro la cacciata dei palestinesi dal quartiere gerosolimitano di Sheikh Jarrah. Stavolta Maisa è accusata d’avere lanciato diverse pietre nella sua personale intifada web: la foto d’una donna israeliana presa in ostaggio e, sotto, l’emoji d’una faccina ridente; «eroiche» sequenze dei terroristi di Hamas che scavalcano la barriera di Gaza; un reticolato della Striscia sfondato durante l’attacco e sotto l’incitamento «avanti così, stile Berlino!», con riferimento al Muro buttato giù nel 1989… «Mi vergogno di te!», l’ha messaggiata un altro attore israeliano, Ofer Schechter:
«Vivi a Nazareth. Fai l’attrice nei nostri show. E poi ci pugnali alle spalle». Maisa ha 37 anni ed è considerata una stella nascente: ha girato a Hollywood, ha ricevuto grandi elogi a Cannes e il suo film «Tel Aviv in fiamme», umorismo di guerra, premiato alla Mostra del Lido.
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Non si scherza più. Il dopo—Sette—Ottobre è un dopo—Undici—Settembre: duro e inflessibile come fu in America. Il procuratore statale ha già detto che saranno «denunciati e puniti tutti i casi di lode e sostegno ai massacri» di Hamas. Ci sono stati 246 casi di «hate speech» denunciati, simili a quello di Maisa, 118 rinvii a giudizio e un centinaio di arresti. Tre mesi fa, la Knesset ha istituito una task force di studio sull’antisemitismo online, molto cresciuto durante il Covid, e collabora con i parlamenti americano, inglese, canadese e australiano.
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La frase più citata è quella di Elie Wiesel: «L’Olocausto non cominciò nelle camere a gas, ma nelle parole». Il dibattito sulle voci «anti israeliane» è solo all’inizio, contagia un po’ tutti. Un giornale tradizionalmente liberal e di sinistra, come Haaretz, si chiede a tutta pagina: «Sarebbe il caso di chiudere l’ufficio israeliano di Al Jazeera?». Un interrogativo già sentito, ai tempi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, delle Primavere arabe e delle intifade palestinesi. […]
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