Roberto Bruciamonti per corriere.it
maggiolino hitler
Domani Volkswagen darà l’addio definitivo al Maggiolino. Una cerimonia ne sancirà la fine definitiva della produzione. L’ultima fabbrica in cui veniva prodotto è a Puebla, in Messico. Si tratta di un’auto simbolo entrata nella storia del costume mondiale. Una storia che arriva da lontano e che, qui di seguito, raccontiamo passo dopo passo.
I primi passi
Il 28 maggio 1937, prima ancora che fossero portati a termine i collaudi finali dei prototipi, prima che fosse costruito uno stabilimento e persino prima che fosse stabilito il nome della vettura che la fabbrica avrebbe dovuto produrre, venne fondata a Berlino la GeZuVor, acronimo delle parole tedesche Gesellschaft zur Vorbereitung der Deutschen Volkswagens mbh, in sostanza quella che oggi conosciamo come Volkswagen.
Un’auto politica
Si trattava di una questione eminentemente politica: Hitler voleva una vettura per il popolo tedesco (per «rompere l’egemonia motoristica delle classi sociali più elevate», come aveva scritto nel Mein Kampf) e aveva trovato in Porsche il tecnico in grado di soddisfare questa sua esigenza.
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Pianificazione alla tedesca
Nel maggio 1937 non era ancora stato deciso neppure in quale zona della Germania si sarebbe dovuto realizzare lo stabilimento. Occorreva una struttura posta al centro della Germania, ben collegata al resto del Paese mediante la rete di autostrade (che era in costruzione), mediante la ferrovia e, non ultimo, raggiungibile per mezzo del canale navigabile Mittelland (anch’esso in corso di ultimazione), in modo che i componenti della Volkswagen provenienti dall’intera Germania avrebbero potuto facilmente convergere sulla fabbrica.
La costruzione, secondo i programmi, procedette a tempo di record, rispettando la previsione dell’inizio dell’attività entro il 1° settembre 1939. Tutto andò secondo i piani, ma il primo settembre 1939 le forze armate tedesche diedero inizio all’invasione della Polonia, precipitando il mondo nell’immane tragedia della seconda Guerra Mondiale. All’epoca erano soltanto 210 le Volkswagen già costruite, nessuna delle quali assemblata a Wolfsburg e nessuna delle quali destinata al popolo tedesco… La grande fabbrica, con il suo enorme potenziale, venne immediatamente convertita per produrre armamenti. Al sindacato tedesco dei lavoratori, lo stabilimento era costato 120 milioni di marchi…
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La deriva militarista
Invece delle Volkswagen Maggiolino, dalle officine della KdF Wagen iniziarono a uscire le versioni militari Typ 82 Kubelwagen, presto affiancate dalle anfibie Typ 166 Schwimmwagen, entrambe progettate da Ferry Porsche, figlio del grande Ferdinand. Qualche sporadica Maggiolino venne anche prodotta, ma con scopi meramente propagandistici: il costo, in base a quanto stabilito da Hitler, sarebbe stato di 990 marchi, ai quali occorreva aggiungere 50 marchi per l’istruzione della pratica e 220 marchi per spese varie. Per chi avesse voluto il tettuccio apribile e l’autoradio era previsto un apposito pacchetto di accessori con sovrapprezzo di 60 marchi.
La ripartenza dopo la guerra
Danneggiata dai bombardamenti, ma riparabile, la grande fabbrica Volkswagen di Wolfsburg venne rimessa in funzione appena dopo il termine del conflitto. Assegnata al controllo dell’esercito britannico, si occupò all’inizio della riparazione di veicoli militari alleati, per passare dopo poco all’assemblaggio di Volkswagen Kubelwagen per le forze di occupazione, utilizzando le parti di ricambio rimaste nei vari magazzini dopo la fine delle ostilità.
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Finite le carrozzerie tipo Kubelwagen, vennero assemblate VW Typ 51, berline «Maggiolino» sul telaio delle vetture militari Kubelwagen. Le Typ 51 venivano fornite alle truppe d’occupazione alleate: ai russi (verniciate in color granata), agli inglesi (colore blu), agli americani (con carrozzerie grigio scuro) e ai francesi (grigio chiaro), ma non erano disponibili per i civili.
Nel 1945 e per quasi tutto il 1946 la sorte dello stabilimento rimase incerta: tra le potenze vincitrici c’era chi ne ipotizzava lo smantellamento, chi la riattivazione entro certi limiti, fino a quando nell’inverno 1946/’47 l’attività non fu interrotta forzatamente per la mancanza del carbone necessario per far funzionare il riscaldamento e la centrale elettrica della fabbrica.
In occasione della Fiera di Hannover del 1947 (18 agosto- 7 settembre) il Maggiolino iniziava la sua carriera di vettura civile. A dir la verità un uomo d’affari olandese, Bernardus Marinus («Ben») Pon aveva all’epoca già ottenuto la concessione esclusiva per l’importazione delle VW in Olanda e aveva piazzato un ordine per un primo lotto di 56 vetture, caratterizzate, per la prima volta dall’inizio del conflitto, da paraurti e coppe ruote cromate.
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Alla conquista del mondo
Il passaggio a una situazione meno incerta permise all’autorità militare britannica di affidare a un civile tedesco la direzione della fabbrica Volkswagen. Il trasferimento dei poteri dai militari al rigoroso Heinrich Nordhoff, l’ingegnere scelto da Ivan Hirst come proprio successore alla guida della società, non fu senza scosse: i militari inglesi erano stati conquistati dalla piccola Volkswagen, come testimoniò il maggiore Charles Bryce, ispettore REME dello stabilimento: «C’era qualcosa di speciale nel Maggiolino — scrisse — che suscitava per qualche motivo l’entusiasmo in tutti quelli ai quali capitava di averci a che fare».
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I modelli frivoli
Il graduale passaggio dall’economia di mera sopravvivenza del tempo di guerra a quella meno severa del dopoguerra, unito all’esigenza di attrarre un maggior numero di acquirenti, indusse Nordhoff a rendere il Maggiolino sempre più elegante e ricercato. Più che per migliorare le vendite in Germania (più che duplicate e a quota 19.244 esemplari nel 1948, quindi attestate a 46.146 nel 1949), per conquistare consensi all’estero e procurare in tal modo all’azienda la valuta pregiata indispensabile per un ulteriore sviluppo.
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La prima volta in America
La richiesta interna tedesca di Volkwagen era molto forte. La Casa nel 1949 vantava una penetrazione pari al 66% del mercato. Ma l’economia della Germania era ben lungi dal poter essere considerata stabile, così dopo aver proposto il Maggiolino sui mercati delle nazioni limitrofe (dopo l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, la Svizzera , la Svezia e la Danimarca), Nordhoff guardava con malcelata speranza al mercato americano. All’epoca l’operaio tedesco doveva lavorare 2.500 ore per comprare un Maggiolino, mentre per il suo omologo americano ne sarebbero bastate 450.
Ecco il furgone
Fra le stranezze della nuova fabbrica automobilistica tedesca, la più evidente era che non esisteva una gamma di prodotti, ma soltanto un modello, declinato in più versioni. Del resto il modello era talmente particolare che diversificare la produzione sarebbe stato impossibile. A suggerire la soluzione ci pensò il solito concessionario olandese.
Karmann Ghia, il tocco di stile
MAGGIOLINO VOLKSWAGEN FINAL EDITION
Sempre per diversificare, verso la metà degli anni Cinquanta con la complicità della carrozzeria Karmann e la collaborazione del centro stile italiano Ghia, venne messa allo studio anche una versione sportiveggiante del Maggiolino, sul pianale del quale furono allestiti tanto un’elegante coupé quanto una cabrio.
Un trono senza eredi
Con il passare degli anni, nonostante l’eccezionale successo del Maggiolino, la fragilità dovuta alla dipendenza da un solo modello divenne un pericolo sempre più evidente. Per contro, i tentativi di ampliare le linee di prodotto si scontrarono in continuazione con l’orientamento del mercato: più la Volkswagen si sforzava di proporre nuove auto, più il pubblico insisteva nell’ignorarli per fedeltà al vecchio e inossidabile Beetle Tipo 1.
MAGGIOLINO VOLKSWAGEN FINAL EDITION
Gli anni Settanta e Settanta
Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta l’acquisizione della NSU e dell’Auto Union con tutti i marchi annessi portò la Volkswagen a introdurre nuovi modelli. I quali, per motivi diversi, non incontrarono i favori di una clientela ormai abituata a identificare la Casa solo con il Maggiolino e che accoglieva le novità come ingiustificate divagazioni dalla vera ragion d’essere della Casa tedesca. Anche vetture con caratteristiche molto moderne, come la VW K70 (1971) o la Passat (1973), non furono apprezzate appieno: il paragone con l’antenata era sempre impietoso, soprattutto per motivi di carattere, e le varie eredi ne uscivano immancabilmente con le ossa rotte.
Arriva la Golf
MAGGIOLINO HIPPIE
Ma le cose stavano cominciando a prendere un’altra piega. In Volkswagen l’esigenza di sostituire o almeno di affiancare al Maggiolino un modello alternativo e ugualmente popolare era diventata l’ossessione strategica. Lo studio accurato della concorrenza spinse i tedeschi a individuare in un prodotto italiano (la Fiat 128 del 1968) la vettura più riuscita del settore. Il compito di disegnare la nuova Volkswagen fu affidato al talentuoso italiano Giorgietto Giugiaro. Nella primavera 1974 nacque la Golf, un modello che fece scuola, s’impose come punto riferimento del mercato ed è tutt’oggi, dopo sette generazioni, tra le vetture più vendute in Europa e tra le più conosciute nel mondo.
Il colosso di oggi
un bar dentro il maggiolino
Convinta dalla Golf, la clientela Volkswagen più fedele cominciò a guardare le successive novità del costruttore con altri occhi. Il marchio veniva sempre più percepito come emblema di un insieme di prodotti di qualità, sia sotto il profilo tecnologico, sia dal punto di vista del design. Il passaggio al gruppo industriale di dimensioni colossali è naturale: in «casa» arrivano o vengono valorizzati altri marchi, da Audi (patrimonio messo in cascina negli anni Sessanta, acquistando l’Auto Union dalla Mercedes) alla Seat (acquisita nel 1985), dalla Skoda (1991) alla Bentley, dalla Bugatti alla Lamborghini (1998), dalla Italdesign-Giugiaro (2010) alle società produttrici di autocarri Scania Vabis (2008) e MAN (2011), dalla Ducati (2012) alla Porsche AG (agosto 2012), società fondata dal grande Ferdinand Porsche, Herr Professor.
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