PHILIPPE DONNET GENERALI
Andrea Greco per “la Repubblica”
Non sarà che la più grande contesa della finanza italiana recente, la sfida a sciabolate per i vertici di Generali (e poi di Mediobanca) tra salotti, mercato e nuovi padroni, alla fine verrà decisa dalla politica? È con questa ipotesi sullo sfondo che la Consob si appresta a replicare al quesito sulla lista del cda Generali: lo farà forse in settimana, con un parere volto a districare i nodi di una battaglia che mette in gioco la reputazione del Paese. Ad accendere gli animi è una proposta di legge dei senatori Luciano D'Alfonso (Pd) ed Emiliano Fenu (M5s).
sede consob
Nata per «assicurare puntuali presidi a un'opzione sempre più diffusa nella prassi ma non espressamente regolata » (ossia le "liste del cda" per scegliere i vertici aziendali), finirebbe col tagliare il nodo decapitando i vertici di Generali e, poi, di Mediobanca, Tim, Banco Bpm e altre aziende dove è il consiglio uscente a proporre i nomi per la propria successione.
Diffuse nei Paesi anglosassoni a proprietà frazionata - ma pure in Francia e Germania - le liste del cda da anni sono entrate negli statuti italiani: 48 società le prevedono, 10 le usano. Il Tuf del 1998 non ne parla: e il rischio di autoreferenzialità dei vertici che le propongono esiste. Tuttavia il nuovo disegno di legge è così radicale che applicarlo escluderebbe di colpo dalla lista del cda Generali in fieri sia l'ad Philippe Donnet che il presidente Gabriele Galateri, per la gioia dei soci che li osteggiano (Caltagirone, Del Vecchio e Fondazione Crt, in patto tra loro).
ALBERTO NAGEL
A quel che s' apprende l'orientamento della Consob è molto meno radicale. Pur se ridotta dalle norme alla "moral suasion", l'Autorità starebbe valutando come fugare i dubbi sui rischi di concerto qualora i "pattisti" facessero una loro lista (poiché sono presenti nel cda triestino, se sommati a Mediobanca la soglia d'Opa del 25% sarebbe superata), e come suggerire maggioranze qualificate per liste del cda adottate da consigli che sono stati nominati da altri. Com' è per il cda Generali, per anni estrapolato dalla lista inoltrata dal primo azionista Mediobanca.
Donnet Caltagirone Del Vecchio
La bozza del ddl D'Alfonso-Fenu, non depositata, cita nella relazione «l'evidente rischio, assai concreto nelle società che si avvalgano della lista del cda, che dietro di questa si celino uno o più soci forti». Un identikit che ricalca le accuse di Caltagirone e Del Vecchio a Mediobanca, fautrice della lista del cda da tutti votata nell'assemblea 2020 a Trieste, ma da qualche mese osteggiata dai pattisti che la ritengono una lista Mediobanca mascherata.
leonardo del vecchio
Il ddl prevede tre vincoli per le liste del cda: la prima, che non siano candidabili soggetti in carica da sei o più anni; la seconda, che se la lista del cda «non risulti maggioritaria » sia esclusa dal riparto dei seggi; la terza che chi la vota, se ha più dello 0,5%, diventi "parte correlata" dell'azienda, cercando così di spingere gli investitori istituzionali verso liste alternative.
Applicata a Generali, la misura escluderebbe il presidente in carica dal 2011, e il capo francese scelto nel 2016 e di cui a settembre 8 consiglieri su 12 hanno chiesto il rinnovo. Quel passaggio, e il successivo prestito titoli di Mediobanca sul 4,42% di Generali per contare di più in assemblea, hanno infiammato la partita: i legali di Caltagirone hanno posto a Consob quesiti sulla legittimità di una lista del board votata a maggioranza, e del prestito titoli. A ottobre Consob impose ai soci forti Generali di non partecipare all'iter della lista del cda, in mano a tre consiglieri "indipendenti".
francesco gaetano caltagirone
Intanto il ddl fa discutere: potrebbe con un blitz trasformarsi in emendamento a prossimi decreti, in tempo per l'assemblea 2022. Ma lo scenario è improbabile perché la proposta non trova grandi fautori. Non il Tesoro, ignaro e a cui pare non piaccia. Non i vertici del Pd, che preferirebbe un approccio organico nella revisione del Tuf. Non M5s, poco attiva sul dossier.
E neanche Assonime (che a Plus ha ricordato che la lista del cda «è prassi dominante nei principali Paesi, e anche nella limitata esperienza italiana è apprezzata dagli investitori»), o tra i gestori del mercato, dove si temono le disparità tra liste, i vincoli più stringenti sulle "parti correlate" e il tetto di sei anni, che incentiverebbe i manager a massimizzare le performance a breve termine.