Manuela Galletta per www.lastampa.it
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Con le ‘pezze’, a Ercolano, c’è chi ha fatto fortuna e scritto uno spaccato di storia. Sì, perché prima di essere noto in tutto il mondo come la città degli Scavi, il comune della costa vesuviana era punto di riferimento degli abiti vintage venduti a basso costo. Un’attività commerciale con una tradizione assai lontana nel tempo: il mercato delle pezze nacque durante la Seconda Guerra Mondiale e qui venivano rivendute le divise militari trafugate ai convogli americani o lasciate a Napoli dagli americani. in questo mercato che si videro i primi jeans.
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La vendita di abiti di seconda mano è diventata business, facendo del mercato di Resina il più famoso dei mercati di abiti usati. Ma, per qualcuno, quell’attività è divenuta anche speculazione, un modo di arricchirsi imbrogliando gli acquirenti.
La compagnia della Guardia di Finanza di Portici, guidata dal capitano Antonio Di Gesù, ha scoperto la particolare attività di un un ingrosso di abbigliamento e accessori che trattava vestiti usati: gli abiti migliori, quelli che presentavano difetti facilmente cancellabili, venivano rigenerati e rivenduti come nuovi, con tanto di cartellino che ne certificavano l’originalità. E il prezzo apposto era pure discreto: 29,90 euro.
A venderli, però, erano commercianti di Roma e Milano, dove la titolare dell’opificio incriminato spediva gli indumenti. La donna, di 39 anni, è stata denunciata per frode in commercio, mentre l’opificio e le balle di indumenti sono finiti sotto sequestro.
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La scoperta dei finanzieri è avvenuta durante i quotidiani controlli anti-Covid: gli uomini del capitano Di Gesù hanno trovato all’interno del locale (di circa 110 metri quadrati) oltre 3 tonnellate di rifiuti tessili non sanificati, scarti di lavorazione e varie attrezzature da lavoro per rigenerare capi di abbigliamento.
Le indagini hanno consentito di ricostruire il percorso dei vestiti e il business della 39enne. Funzionava così: in opificio arrivavano balle di vestiti usati, da 100 chili ciascuna, provenienti da Francia e Germania. La 39enne effettuava un controllo qualità, dividendo gli abiti meglio tenuti da quelli più consumati. I vestiti più buoni venivano sottoposti a rigenerazione, un particolare processo (fatto di lavaggio, ‘stracciatura’, laddove necessario tintura) per rimuovere le impurità presenti (come ad esempio i pelucchi che si formano su maglie e maglioni), poi venivano imbustati ed etichettati come se fossero nuovi. E quindi venduti a prezzo pieno. Venduti a Roma e Milano.
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Resta da capire se il circuito fosse quello di ‘piccoli’ negozi (non di grosse marche; i capi non erano contraffatti) o dei mercati: sul punto vi sono accertamenti in corso. Gli abiti più consumati, invece, venivano pure rigenerati ma sulle etichette veniva specificato che si trattava di un usato recuperato e venduto a una cifra equa. La 39enne a capo del business è stata denunciata per per frode in commercio e per violazioni al Testo Unico sull’Ambiente.
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