Estratto del libro “Elisabetta la regina infinita” di Alberto Mattioli e Marco Ubezio
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Se Diana non fosse mai esistita, ipotesi magari auspicata da alcuni Windsor di cui incrociò la strada, si sarebbe dovuto inventarla. Perché niente definisce altrettanto bene, ma a contrario, la grandezza della nostra Regina infinita. Lady D è l’anti-Elisabetta, espressione di una concezione della società, della monarchia e perfino della vita assolutamente antitetica. Allo stesso tempo, la parabola della «principessa del popolo» anticipò con una precisione chirurgica alcune caratteristiche del nostro presente. Motivo per cui questa vicenda non è confinabile al mero dato biografico o al pettegolezzo: assurge a simbolo. La cronaca non basta. Merita una riflessione.
Di matrimoni concepiti male e andati peggio sono piene le biografie dei reali di ogni tempo e paese. Le tragicomiche vicende del ménage Carlo-Diana, i dispetti e le ripicche, i tradimenti e le riconciliazioni, le intercettazioni telefoniche e le interviste televisive, pur ghiotte per ogni royal watcher, impallidiscono rispetto ad altre precedenti prodezze della casa di Hannover.
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Dei rapporti fra Elisabetta e Diana non si sa molto. Pare che la Regina non le sia stata ostile, almeno finché non cominciò a fare disastri. Non era nemmeno molto calorosa, per la verità, ma si sa che la Regina il calore umano lo manifesta soltanto a chi lo merita veramente: cavalli, cani e unni. Però, si diceva, le due donne avevano una visione assolutamente antitetica della vita. Per Elisabetta, è sempre stata, in primo luogo, un dovere da compiere. Per Diana, come per la verità per la maggior parte di noi, la ricerca della felicità (fra parentesi: proclamando il diritto a essere felici, la modernità ha prodotto generazioni di infelici.
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La felicità è un’aspirazione, non un diritto). Quando Diana entrò nella Royal Family non capì che la sua soddisfazione personale passava inevitabilmente in secondo piano rispetto ai suoi doveri pubblici. Le monarchie hanno infatti questo inconveniente: molto più che le repubbliche, è difficile scindere l’istituzione da chi di volta in volta è chiamato a incarnarla, anche perché un presidente resta in carica un numero di anni prestabilito, poi cambia; un Re, no. È poi la ragione, per inciso, per cui i critici più severi dei monarchi sono i monarchici veri, vedi Chateaubriand: sanno che con un Re scadente diventa scadente anche l’istituzione.
Diana non aveva probabilmente capito dov’era finita e del resto nulla, né nella sua trascurata istruzione, né nelle sue non ridondanti facoltà intellettuali, l’aveva preparata a farlo. Per lei, essere la moglie dell’erede dell’ultimo trono prestigioso rimasto al mondo significava diventare parte del jet set, frequentare stilisti e popstar, ballare con John Travolta o andare alle sfilate: non certo lavoro noiosissimo perché ripetitivo, codificato, del tutto privo di sorprese o di stimoli, dove l’io deve annullarsi nel noi e la gratificazione personale in quella della ditta.
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Già aveva sposato un uomo che non la amava davvero (né, pare di capire, lei amava lui) e i cui gusti erano, all’incirca, l’opposto dei suoi. Ma poi la sua individualità, la sua famiglia, insomma la sua intera vita sarebbero diventate parte di un ingranaggio più ampio che inevitabilmente le avrebbe stritolate: la monarchia. Una serie di regole e di riti apparentemente assurdi che però, come invece Elisabetta capì fin dall’inizio, anche perché fin dall’inizio era stata preparata a farlo, sono essenziali, perché è in questa ripetitività asfissiante, in questo balletto senza fine di segni, gesti, cerimonie, in questo eterno ritorno del sempre uguale che sta il senso dell’istituzione.
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La rottura era inevitabile e infatti si verificò. Attribuire oggi colpe o ragioni non avrebbe senso, e comunque sembra che fossero ben distribuiti fra tutte le parti di questa commedia degli equivoci. Diana ebbe però il torto di renderle pubbliche.
Torto non nei confronti di suo marito o di sua suocera o della famiglia che l’aveva accolta o, come sosteneva lei, l’aveva respinta. Torto nei confronti di un’istituzione di cui aveva voluto fare parte e di cui quindi doveva accettare le regole anche se non le condivideva. Prima fra tutte, «never complain, never explain», mai lamentarsi, mai dare spiegazioni. È qualcosa di più sottile dei panni sporchi da lavare fra le mura domestiche, come da tradizionale regola della famiglia italiana più tipica. È l’idea che alla monarchia serva una dose di mistero. Perché chi la incarna è sì un uomo o una donna come tutti gli altri, ma se le sue vicende diventano quelle di tutti, se si perde l’aura, l’eccezionalità della sua posizione, allora anche la Corona diventa una delle telenovele mediatiche o social che ci vengono quotidianamente inflitte, dove un artista è indistinguibile da uno sfigato del Grande fratello, un intellettuale da un calciatore e una principessa da una Meghan Markle qualsiasi.
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Lady D, e in questo ahimè è una figura assolutamente contemporanea, voleva essere principessa del Galles e in futuro Regina, ma non era disposta ad accettarne gli inconvenienti. La sua felicità privata era incompatibile con la sua ambizione pubblica. Avrebbe potuto e forse dovuto sacrificare la prima alla seconda: invece provò a tenere insieme tutto e, quando comprese che non ci sarebbe riuscita, iniziò a fare la guerra a suo marito. Di davvero imperdonabile c’è che l’abbia fatta in pubblico.
A vederle allora, e a rivederle oggi, le sue interviste televisive, atteggiata a madonnina infilzata, la voce bassa, l’occhio umido sotto la piega fresca di parrucchiere, la commozione a comando, la frase a effetto studiata, fanno davvero pensare a una totale mancanza di spontaneità, a una messinscena, a una recita. Recita oltretutto mediocre, senza grandezza, piccole rivalse da «confessioni» della soubrette tradita o da «sfoghi» dell’attricetta inviperita nel programma pomeridiano per le serve. Una Medea da tinello, insomma. La domanda scattava e scatta irresistibile: perché l’hai sposato, allora?
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E invece non scattò. Interpretando ancora una volta alla perfezione lo spirito del tempo, che purtroppo non è il tempo dello Spirito, Diana portò l’opinione pubblica dalla sua, come si vide benissimo in occasione della morte, del funerale e delle relative polemiche. (…)
Di fronte a questo irrazionale scatenamento di passionalità, drogato invece che sedato dalla politica, la Regina fu grande due volte. La prima perché, all’inizio, reagì appellandosi alle regole. Sulle questioni su cui l’opinione pubblica era sempre più insistente fino a diventare minacciosa – la permanenza a Balmoral, lo stendardo su Buckingham Palace, i funerali di Stato – Elisabetta diede la risposta che doveva: c’erano delle regole, che si applicassero.
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Reagì insomma da quella sovrana avveduta che è, i cui comportamenti, in circostanze ordinarie, sono dettati dal protocollo o dal semplice buonsenso. Elisabetta ebbe però la finezza politica di cambiarli, quando si rese conto che le circostanze stavano diventando straordinarie. I suoi sentimenti personali nei confronti di Diana non contavano più, e nemmeno il fatto che, alla fine, la principessa del Galles avesse costituito la più grave minaccia per la monarchia britannica dai tempi di Hitler. La Regina si rassegnò a dare al popolo quello che il suo popolo le chiedeva. In quel chinare la testa al passaggio del feretro di Diana c’era, forse, un’umiliazione personale. Ma anche il senso del dovere di chi fa quel che va fatto, anche se farlo non è previsto dalle regole, e forse non è nemmeno giusto.
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