Gaia Piccardi per il Corriere della Sera
Flavia, da dove cominciamo?
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«Da una foto dell'album della famiglia Pennetta: ho un anno, al massimo due, sono seduta in mezzo a un campo da tennis a Brindisi, la mia città. Gioco con la terra rossa come fosse sabbia al mare, perfettamente a mio agio. E la cosa pazzesca è che nel telefonino ho un video di Farah, la seconda dei miei tre figli: posa uguale, situazione identica, stessa faccetta estasiata. Spiccicata a me, che andavo a dormire abbracciata alla racchetta invece che all'orsetto di pelouche».
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Per lo sport italiano Flavia Pennetta, 40 anni, fieramente pugliese, figlia di Oronzo presidente di tennis club e Concetta (bella come lei), nipote di Elvy prima giocatrice e poi maestra, ha rappresentato esattamente tutto ciò che è stata per Fabio Fognini: oggetto del desiderio, fidanzata, moglie, madre.
L'amore, in entrambi i casi, è stato lento a nascere (primo titolo importante a Indian Wells, in California, a 32 anni; il botto a New York nel 2015: a 33 anni la tennista più attempata ad aggiudicarsi il primo titolo Slam della carriera), forse perché prima Flavia era impegnata a imparare a vincere con la Federation Cup, la Davis delle ragazze conquistata quattro volte insieme alla miglior generazione di giocatrici che l'Italia abbia mai avuto: con lei, Francesca Schiavone, Roberta Vinci (battuta nella finale dell'Open Usa), Sara Errani.
E appena raggiunta la vetta della montagna, basta: ha deciso che da lì voleva scendere. Ritiro contestuale al trionfo più grande, un esercizio di stile non banale né scontato riuscito a pochissimi fuoriclasse.
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Ripartiamo da due polaroid indelebili di quell'album.
«Grado, ho 16 anni: vinco il mio primo torneo vero e sono la ragazzina più felice del mondo.
Sopot, Polonia, 2004: sono appena stata superata nel ranking dei punti da Tathiana Garbin, che così ha conquistato al posto mio la qualificazione ai Giochi olimpici di Atene. Un lutto, sono depressissima. Guardo in albergo, piangendo, la cerimonia d'inaugurazione. Almeno sto torneo lo vinco, mi dico. Detto, fatto. Ho festeggiato sempre da sola, in camera, con hamburger e patatine».
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Invece di quel clamoroso trionfo a New York contro ogni pronostico nella stagione in cui Serena Williams doveva realizzare il Grande Slam, che ricordo conserva?
«La fifa blu che avevo la mattina della finale contro Roberta Vinci. Ero mangiata dall'ansia, in preda a un pianto isterico. A ripensarci ora, mi faccio ridere da sola. Solo io sapevo che quello sarebbe stato il mio ultimo Grande Slam e la vittoria di Roberta in semifinale su Serena Williams mi aveva caricata di una responsabilità mostruosa: io Serena non l'ho mai battuta in vita mia. Sette sconfitte, molte nette. Ho pensato di rinunciare, di non presentarmi».
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Sarebbe stato un delitto. Come ha sciolto la tensione?
«Andando a passeggiare per Manhattan, io con i miei pensieri».
Crede nel destino?
«Credo in un destino che ci creiamo noi, con le nostre scelte. Nessuno ti obbliga. Poi nella vita ci vuole anche culo ma tu devi essere positivo: se vedi nero, le occasioni ti passano sotto il naso senza che tu te ne accorga».
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Fabio Fognini è stato un'occasione?
«È stato un innamoramento dopo anni di amicizia, durante i quali abbiamo avuto altri partner. Fabio è un buon compagno di vita, il marito che mi aspettavo. Sembrerà strano che io lo dica, ma è un uomo paziente. La pazienza che non ha in campo la tiene per la famiglia. I maschi spesso sono immaturi, tendono a rimanere sempre nel ruolo di figli, faticano ad affrancarsi dalle famiglie d'origine. Fabio è cresciuto e migliorato, senza sfuggire alla regola. Grazie a Dio con sua madre e suo padre, che mi conoscono da secoli, vado d'accordissimo».
Si è mai vergognata di una sua mattana?
«Vergognata no, ma mi sento sempre a disagio quando fa qualcosa che non deve fare. Lo guardo e mi vedo come riflessa in uno specchio: comunque è mio marito, è il padre dei miei figli, le cavolate che combina non finiscono lì, in campo. Quando torna a casa gliene dico di tutti i colori e lui si mette da solo in castigo, silenzioso e imbronciato mentre si autoflagella. Quando vedo rispuntare mezzo sorriso sotto la barbetta, gli è passata».
Le hanno mai chiesto: Flavia, ma come fa a stare con Fognini?
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«La risposta è facile: ci sto perché lo amo. E perché siamo due persone molto più simili di quello che appare».
Cosa gli regalerebbe di sé?
«Un pochino della mia razionalità e della mia - perché no? - paraculaggine. A Fabio mancano i filtri: o non parla o dice tutto, senza mezze misure. Infatti a fine carriera lo vedrei bene in un salotto televisivo a parlare di sport. Oltre a capirne, creerebbe dibattito».
Avete lasciato Barcellona per Milano. Perché?
«Perché è ora di pensare al futuro. Barcellona è la casa dove nel 2015 è nato l'amore con Fabio, l'abbiamo comprata insieme. Ricordo ancora il panico prima del rogito. Ho chiamato mia mamma: mà, aiuto! E lei: tranquilla Fla, stai comprando un appartamento, non è che ci stai facendo un figlio. Come no. Ne avrei fatti tre...».
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Milano, dunque.
«È la città italiana che offre di più. Ed è comoda: io ho tre voli al giorno per Brindisi, Fabio è a meno di tre ore d'auto da dove è nato, Arma di Taggia. Abbiamo preso casa in una zona molto verde, non lontano dallo stadio. Quando smetterà di giocare, Milano gli riempirà il tempo. Ha già un'agenzia di scouting e management: a differenza di me ha l'occhio che vede lontano, sa cogliere i talenti. Anche io, dopo aver mandato a scuola i figli, mi vedo produttiva: telecronache e commenti, il tennis è la materia che conosco di più. Ma se mi proponessero un reality itinerante, tipo Pechino Express, ci andrei subito! Con Fabio o con la mia amica Francesca Schiavone: moriremmo dal ridere».
L'idea di un figlio che segua le orme di mamma e papà le piace?
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«Perfetto! Io ne sarei entusiasta, Fabio meno. Ma insomma l'importante è che i figli abbiano una passione e la coltivino, che ci sia qualcosa che gli toglie il fiato come il tennis a noi».
Il torneo delle leggende vinto al Roland Garros in doppio con la Schiavone le ha fatto venire qualche prurito? In fondo Serena Williams, che è tornata a giocare sull'erba inglese, ha solo cinque mesi più di lei.
«Per carità! Accettare di giocare a Parigi è stato un regalo a me stessa: non facevo qualcosa per me da tanto tempo. Tre figli sono un bell'impegno, Fabio spesso è via per i tornei: quando il carico diventa eccessivo e mi sento tutto il peso addosso, sbotto. È normale».
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Ha mai incontrato un mito dello sport che si è rivelato diverso da come se l'era immaginato?
«Oh sì. Da ragazzina amavo follemente Monica Seles. Poi, un giorno, l'ho incontrata nello spogliatoio di un torneo. Era chiusa in se stessa, ricurva, fragilissima. Mille anni luce lontana dalla sparamalpetto che pensavo».
Sparamalchè?
«Sparami al petto, detto di qualcuno tronfio e spavaldo. È brindisino puro».
La collega più simpatica?
«Francesca Schiavone e Gisela Dulko, argentina, mia storica compagna di doppio».
La più odiosa?
«Non risponderò Maria Sharapova, come si aspetta, perché la russa Rodionova era peggio: letteralmente insopportabile. Una volta, a Cincinnati, le ho quasi messo le mani addosso: Gisela ha dovuto separarci».
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La fama di Flavia Pennetta acqua cheta crolla miseramente anche sotto il dito medio che mostrò, una volta impegnata in Federation Cup in Francia, all'arbitro.
«Una scemenza che non pagai con la squalifica solo perché l'arbitro non se ne accorse! Mi è andata bene. Il giorno dopo mi seppellirono di fischi: giocai con le orecchie bassissime».
Rifarebbe tutto?
«Tutto. Anche gli errori che ho commesso, e ne ho fatti, sono stati errori giusti. Certi momenti di coppia, certi fidanzati... Ciascuno, con il senno di poi, ha avuto un senso».
Pensa all'ex numero uno del mondo spagnolo Carlos Moya, oggi allenatore di Rafa Nadal, che la tradì su una rivista di gossip?
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«Non è andata proprio così».
Come andò?
«A Carlos, che mi ha messo le corna, devo dire grazie perché se fossi rimasta con lui avrei smesso molto prima e non avrei mai vinto quello che ho vinto. Andiamo a dormire, buonanotte amore. Il giorno dopo sto giocando un match contro Cibulkova, che a fine set va in bagno. Ne approfitto per sbirciare il telefonino, c'è un messaggio di Carlos: chiamami. Oddio, è morto qualcuno, penso.
Perdo l'incontro in cinque minuti, lo richiamo: cosa è successo? Tutto bene, dice lui, però sono uscite su un giornale delle foto con una mia amica a Amsterdam... E cosa state facendo, chiedo? Ci baciamo, risponde. Spatapam, sono caduta in terra, svenuta. Ho perso 11 chili in sei giorni: non mangiavo, non dormivo, non respiravo. L'avevo idealizzato, dopo l'ho capito. E invece mi ha fatto il regalo più bello e prezioso: lui poi si è sposato con l'amore della sua vita, a me ha ridato la vita».
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L'ha ringraziato, ora che il reato è prescritto?
«Fossi matta! Mai!».
Ma insomma Flavia, chi è la più grande tennista italiana di sempre: Francesca Schiavone che ha vinto il Roland Garros 2010 o lei che ha conquistato l'Open Usa 2015?
«Francesca è stata la prima a prendersi uno Slam, io la prima top 10 azzurra della classifica mondiale. In più, ho un torneo Master 1000 che lei non ha. Vale più Parigi o New York? Con Fra, pur volendoci un gran bene, ne discutiamo spesso. E allora facciamo che valgono pari: l'amicizia è più importante dei record».
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