Marco Giusti per Dagospia
Smetto quando voglio ad honorem
Arieccole le migliori menti italiane votate al crimine per colpa della crisi e dei baroni universitari! Stavolta le ritroviamo a Rebibbia e dintorni nel terzo e conclusivo capitolo della saga, Smetto quando voglio: ad honorem, diretto ovviamente da Sydney Sibilia, che lo ha scritto assieme a Francesca Ranieri e Luigi Di Capua, e lo ha prodotto assieme a Matteo Rovere e Rai Cinema.
Diciamo subito che il terzo capitolo è decisamente più riuscito del secondo, grazie anche alla concentrazione dell'azione e dei personaggi, chiusi per buona parte della storia in carcere. Anzi, è proprio l'ambientazione carceraria a funzionare come genere a sé, sia per lo sviluppo della parte action, il recupero della banda a Rebibbia, la grande fuga dal carcere durante la prima operistica con Stefano Fresi cantante (favoloso), sia per la parte comedy, perché è la situazione ideale per il recupero di gag e il funzionamento dei personaggi.
Smetto quando voglio ad honorem
E i personaggi, arrivati alla terza puntata della saga, sono davvero moltissimi, al punto che attorno a Edoardo Leo, che ha funzionato sempre, e bene, da protagonista e da collettore degli altri elementi della banda, se vengono un po’ sacrificati le new entries del secondo episodio, Greta Scarano, Giampaolo Morelli, sono invece sviluppati i due “cattivi” solo intravisti negli episodi precedenti, cioè il dinamitardo Luigi Lo Cascio e Er Murena, Neri Marcoré, con un flashback che costruisce quasi uno spin-off, mentre ha un peso tutto suo il buffo direttore del carcere maniaco dell’opera interpretato da Peppe Barra, in versione baffuta come se fosse il fratello del mitico Gianfranco Barra, caratterista doc dei film di Dino Risi.
Smetto quando voglio ad honorem
Magari l’ultima parte, con la banda che deve compiere la sua opera di bene, funziona meno bene della grande parte centrale che vede la preparazione e la messa in opera della grande evasione e del botto che verrà coperto da Fresi impegnato a sgolarsi su “Come un colpo di cannone…”.
Smetto quando voglio ad honorem
Ma è proprio la parte sana del film, cioè quella carceraria, totalmente o quasi maschile, a far girare tutto il resto. Come alla fine funzionerà, almeno credo, il modello produttivo così fuori dagli schemi di Sibilia e Rovere. Cioè produrre non un semplice sequel, ma ben due sequel con un budget complessivo di 5 milioni di euro, in modo da avere tre episodi da presentare uno dopo l’altro come se fosse una miniserie.
Smetto quando voglio ad honorem
E’ vero che non è Justice League, ma non costa neanche 300 milioni di dollari. E, comunque, quattro risate con Fresi e Marcoré te le fai, a Edoardo Leo che deve recuperare la sua donna, Valeria Solarino, come fosse un Nino Manfredi, ci credi. E proprio Rebibbia e la situazione carceraria e maschile gli dona un tocco di Zercalcare, cioè di fumetto romano freak e intelligente, che non guasta. In sala da giovedì.
Smetto quando voglio ad honorem