Anna Fregonara per il “Corriere della Sera”
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Il timore di usare il bagno pubblico può trasformarsi in una vera e propria forma di ansia. Si chiama urofobia o sindrome della vescica timida , paruresis in lingua inglese. «Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), elaborato dall'Associazione Psichiatrica Americana, definisce una fobia specifica, come quella del sangue, degli animali o degli aghi, quella condizione chiara in cui c'è una paura persistente e sproporzionata rispetto a un oggetto o a una situazione.
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Nonostante il nome possa ingannare, l'urofobia non è una fobia specifica, nonostante alcuni la considerino come una condizione a sé stante», specifica Davide Carlotta, psicologo psicoterapeuta, consulente del servizio di Psicologia clinica e psicoterapia dell'Irccs Ospedale San Raffaele Turro, docente presso la Scuola di specializzazione in Psicologia clinica della facoltà di Psicologia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
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DI CHE COSA SI TRATTA?
«Può essere un sintomo di un'altra condizione, nota come fobia sociale la quale rientra tra i disturbi d'ansia. Riconosciuta a livello scientifico, indica una marcata paura nelle situazioni in cui il soggetto è esposto al possibile giudizio altrui. Nel caso specifico del bagno, questo può tradursi nell'incapacità di urinare o di avere una minzione efficace se sono presenti altre persone nelle vicinanze che possono vedere o sentire mentre si è nella toilette e, di conseguenza, far nascere il timore di essere valutati negativamente». Gli urofobici possono, nelle situazioni più serie, limitare anche molto la vita sociale .
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«La persona mette in atto condotte di evitamento per non aver bisogno di andare in bagno, come bere poco quando è in giro, non frequentare ristoranti, cinema o locali- conferma Carlotta-. Questo atteggiamento impedisce al soggetto di aggiornare i propri schemi e di migliorare il proprio stato di ansia perché non si espone mai a un possibile risultato diverso».
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RIMEDI
Ci sono diverse strategie per affrontare il problema. «Quella principale è l'esposizione in vivo, un intervento di tipo comportamentale - spiega lo psicologo -. Il soggetto viene a poco a poco esposto alla situazione temuta per indebolire l'associazione tra la condizione di bagno pubblico e la risposta di ansia.
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Si può, per esempio, stimolare la persona con paruresis a usare il bagno in casa di altri, prima senza nessuno vicino, poi con persone nella stanza accanto, poi dietro la porta. Per fare ciò, al soggetto possono essere insegnate tecniche per gestire la risposta ansiosa riducendola a un livello tollerabile. Altri interventi sono di tipo cognitivo. La persona può essere "bloccata" da convinzioni non realistiche legate, per esempio, a una distorsione della propria immagine corporea e vive con disagio l'esporre parti solitamente private. In questo caso è importante lavorare sull'auto percezione di sé».
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Educazione Nick Haslam, professore di Psicologia all'università di Melbourne (Australia) e autore del libro Psychology in the Bathroom , mette in luce il fatto che i genitori insegnano ai figli piccoli come l'atto di andare in bagno si fa isolato dagli altri, creando una sorta di tabù sull'argomento. «Alcune esperienze precoci, come eventi spiacevoli legati al bagno, possono avere un ruolo - chiarisce Carlotta -. È importante ricostruire la storia di ogni paziente per poter formulare strategie di intervento personalizzate.
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«L'urofobia si può poi associare ad altre fobie, come quella dei germi, che può presentarsi in associazione, e che è però una condizione diversa: la persona non usa il bagno pubblico per il rischio di esporsi a virus e batteri». Il disturbo è diffuso più di quanto si possa essere portati a pensare. «I dati di prevalenza sono molto variabili, le stime più affidabili vanno dal 3% al 6% della popolazione. Si sa, poi, che la fobia sociale colpisce di più le donne anche se, rispetto agli uomini, la differenza è di pochi punti percentuali».