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    BONOMI, BUONO A FARE IL FINANZIERE PIU’ CHE L’INDUSTRIALE: IL CANDIDATO “FORTE” A FUTURO CAPO DEGLI IMPRENDITORI GOVERNA UNA PICCOLA AZIENDA IN FONDO A UNA SEQUELA DI SCATOLE CINESI. IL SUO RUOLO È SPOSTARE L'ASSE DA ROMA A MILANO - ORMAI LA GARA ALLA PRESIDENZA DI CONFINDUSTRIA NON INTERESSA A NESSUNO. LE ASSOCIAZIONI DI CATEGORIA COSTANO AGLI ISCRITTI 400 MILIONI L'ANNO, MA LA CONFINDUSTRIA AL MASSIMO FIRMA QUALCHE ACCORDO COLLETTIVO E SFORNA QUALCHE RICERCA


     
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    Fabio Pavesi per Dagospia

    carlo bonomi vincenzo boccia 1 carlo bonomi vincenzo boccia 1

     

    Ha buone chance per diventare il prossimo presidente di Confindustria questa primavera. Carlo Bonomi già potente presidente di Assolombarda risulterebbe, secondo i sondaggi e la raccolta dei consensi, in vantaggio rispetto ai suoi diretti antagonisti, Licia Mattioli, vicepresidente dell’organizzazione e l’industriale siderurgico Giuseppe Pasini. Ma nella contesa per la carica di primo rappresentante dell’imprenditoria italiana emerge un dato che simbolicamente la dice lunga sulla reale consistenza della cosiddetta rappresentanza di un’associazione sempre più in crisi di identità.

     

    BONOMI IL RE DELLE PICCOLE SCATOLE CINESI

    Il Bonomi, in pole per occupare lo scranno più alto degli industriali del Belpaese più che un imprenditore appare un raffinato esponente del private equity. Più finanziere che industriale. La sua azienda la Synopo srl è sua solo in minima parte. Per arrivare a Synopo occorre risalire una lunga catena societaria, fatta per lo più di scatole vuote fino ad arrivare alla sua creatura originaria. Si chiama Ocean srl capitale sociale 93mila euro, di cui Bonomi direttamente possiede il 33%.

    CARLO BONOMI CARLO BONOMI

     

     Con un versamento di capitale sociale da parte del favorito alla corsa di Confindustria di soli 31mila euro. Poco più del valore di un box in una qualunque città italiana. Da Ocean di cui Bonomi possiede un terzo si scende a Marsupium srl, di cui Ocean possiede il 40%. E finalmente da Marsupium si giunge a Synopo posseduta solo con il 34%. Il resto è in mano a Caravaggio tre srl, un fondo. E così alla fine il presidente di Assolombarda fa l’imprenditore con solo il 4,5% di Synopo. Poca cosa che gli consente di mettere pochissimo capitale di rischio proprio.

     

    Giuseppe Pasini Giuseppe Pasini

    E’ lo schema delle cosiddette scatole cinesi tanto caro in anni lontani ai vari Tronchetti Provera, ai De Benedetti agli Agnelli. A cui evidentemente Bonomi deve essersi ispirato. Un modello comodo. Si controlla una società con il minimo delle quote e con un uso astuto della leva finanziaria che abbatte il rischio personale. Il vero business industriale però non è neanche in Synopo. Occorre scendere a valle nella Sidam, azienda controllata al 90% da Synopo che opera nel biomedicale.

     

     Di stanza nel cuore del distretto del biomedicale a Mirandola, Sidam non spicca certo per dimensioni. Il bilancio 2018 di Sudam Srl conta ricavi per solo 13,8 milioni di euro con un utile netto di 2 milioni. Profittevole certo ma piccola piccola con i suoi 70 dipendenti. Sidam nel 2017 si è comprata il 75% di Btc, senmpre biomedicale, ma anche qui il fatturato è da piccola impresa.

     

    A conti fatti in questo ginepraio di scatole una sull’altra, Bonomi fa l’imprenditore avendo in portafoglio poco meno del 4% di una società, la Sidam che fattura poco più di 10 milioni di euro. Certo Bonomi gode di stima e consenso. È ritenuto uomo capace e risoluto e in Assolombarda, dicono tutti, ha ben operato. Ma di certo appiccicargli addosso l’etichetta di imprenditore per uno che si muove come uno scafato finanziere appare forse eccessivo. Tant’è.

    LICIA MATTIOLI LICIA MATTIOLI

     

    I DUE ANTAGONISTI: l’ORAFA MATTIOLI E IL SIDERURGICO PASINI

    In confronto i suoi due antagonisti paiono dei novelli Bill Gates. L’azienda di Mattioli (gioielli), la Mattioli spa fattura 53 milioni, ha patrimonio netto di 14 milioni, fa utili per 2,4 milioni e occupa 190 dipendenti. La classica media impresa italiana che opera anche sui mercati internazionali. Poi ecco la grande impresa: il candidato Giuseppe Pasini con la sua Feralpi holding che controlla la Feralpi siderurgica siede su un impero globale che fattura 1,3 miliardi, fa utili per 53 milioni e ha un patrimonio netto consolidato di 475 milioni. Se fosse per i numeri, Bonomi non avrebbe storia.

     

    DOVE SONO I GRANDI IMPRENDITORI? BISOGNA TORNARE AGLI ANNI 80

    Ma il capo degli industriali da tempo non si sceglie in base al blasone imprenditoriale. I tempi dei big da Carli, agli Agnelli, ai Merloni, ai Lucchini è finito da tempo immemore. L’attuale presidente Vincenzo Boccia guida una società tipografica da 40 milioni di fatturato e che di recente ha chiesto e ottenuto una sorta di concordato per tenere lontani i creditori e versa in una situazione di tensione finanziaria palese.

     

    CARLO BONOMI DI MAIO CARLO BONOMI DI MAIO

    Prima di lui c’era Giorgio Squinzi, lui sì a capo di una multinazionale. E prima ancora la Marcegaglia e Montezemolo. Conta per fare il presidente di Confindustria la rete di relazioni, e soprattutto il consenso dei big che stanno dietro le quinte. Bonomi oggi rappresenta la voglia di riscatto del Nord imprenditoriale contro la Confindustria storicamente a baricentro romano. Bonomi è la battaglia dei vari Rocca, Tronchetti, Bracco contro la vecchia guardia degli Abete e C. E avere un’azienda “vera” non è poi così essenziale.

     

    IL CARROZZONE BUROCRATICO DI CONFINDUSTRIA COSTA ALLE IMPRESE OLTRE 400 MILIONI L’ANNO

    Del resto la crisi di identità e rappresentanza di Confindustria è nelle cose. La tenzone sul nuovo capo degli industriali appassiona solo gli addetti ai lavori e la stampa istituzionale. All’opinione pubblica Confindustria dice ben poco, così come alla politica ormai. La capacità di influenzare le scelte di politica economia è finita anni addietro. Occorre tornare ai tempi della battaglia sullo scala mobile o alla marcia dei 40mila a Torino per ritrovare una Confindustria politica capace di incidere sui destini del Paese.

     

    Da tempo Confindustria è ai margini del dibattito politico-economico. Serve più che altro a firmare i contratti di categoria e a sfornare dotte analisi sul Paese con il suo Centro Studi. Per il resto le ricette confindustriali non hanno mai attecchito in un Paese che conta da decenni la più alta tassazione delle imprese in Europa; il più alto costo dell’energia; il livello più scarso di infrastrutture e il più alto debito pubblico. Un quadro immutato e immutabile, in cui Confindustria si è mossa tra le pieghe con una lobby che è riuscita solo a produrre qualche emendamento e qualche leggina sui finanziamenti pubblici.

     

    GIORGIO SQUINZI ALL ASSEMBLEA DI CONFINDUSTRIA GIORGIO SQUINZI ALL ASSEMBLEA DI CONFINDUSTRIA

    Poca cosa, rispetto al quel carrozzone burocratico che è l’organizzazione degli industriali. 150mila imprese iscritte, un centinaio di associazioni territoriali, poi le federazioni di categoria su su a salire fino a Viale dell’Astronomia a Roma. Un bilancio complessivo che supera i 400 milioni di euro, tanto costa alle imprese il sistema associativo. Non c’è un bilancio consolidato, ogni struttura ha bilancio a sé. Il giro d’affari lo si deduce dal bilancio della stessa Confindustria cui affluisce una quota introno al 10% dei contributi delle varie associazioni territoriali e di categoria cui si si iscrivono le aziende.

     

    Confindustria vanta così ricavi che vengono dalle quote associative per 37,5 milioni, impiega 188 dipendenti che da soli costano la metà dei ricavi annui. Già i ricavi. Le imprese associate che pagano sono 150mila, un numero stabile anche negli anni della crisi, ma sono però diminuiti i proventi associativi. Erano 41 milioni nel 2010 oggi sono il 10% in meno. Significa che a parità di imprese iscritte che pagano, la Confindustria pur di mantenere gli iscritti ha dovuto negli anni praticare qualche forma di sconto sulle quote. Segno di qualche disaffezione.

     

    L’ADDIO DEL COSMOPOLITA MARCHIONNE

    LUIGI ABETE EMMA MARCEGAGLIA LUIGI ABETE EMMA MARCEGAGLIA

    E del resto come dimenticare gli addii eccellenti. Come quello della Fiat di Marchionne che abbandonò Confindustria nel 2011. Il manager con il maglione il più cosmopolita degli uomini d’affari capì fin da subito che Confindustria gli serviva ben poco. O i peana di Mauro Moretti, ad di Finmeccanica che nel 2016 denunciò a Report l’inefficienza dell’organizzazione. Burocratica e costosissima la definì Moretti spiegando che la sola Finmeccanica pagava 4,9 milioni l’anno il ticket associativo.

     

    I GRANDI AZIONISTI CONTRIBUTORI? LE AZIENDE DELLO STATO

     Del resto con il tempo i maggiori azionisti di Confindustria sono divenute le aziende pubbliche, veri dominus del sistema. Sono loro le varie Poste, Ferrovie, Enel o Eni a tenere in vita il sistema. Aziende dove il Tesoro è l’azionista di controllo, spesso monopolistiche e che stanno con i piedi in due scarpe. Soci della principale associazione di imprenditoria privata del Paese.

     

    Con tutti i conflitti d’interesse che ne derivano. Però senza di loro e i loro versamenti Confindustria così com’è non starebbe in piedi. Bel rebus. Un po’ come quell’anomalia del candidato presidente del futuro. Quel Carlo Bonomi, più finanziere che industriali. In fondo lo specchio delle contraddizioni del sindacato degli imprenditori italiani.   

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