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    “COME FAI AD ESSERE AMICO DI SORDI? AVARO ANCHE DI SENTIMENTI” – L’ULTIMA BOMBASTICA INTERVISTA DI FLAVIO BUCCI BY GIANCARLO DOTTO: SORDI MI MANDAVA LA SARTA NELLA ROULOTTE A RIMEDIARE TRA GLI AVANZI DEI CESTINI LE OSSA PER I CANI. MA MANFREDI ERA PIU’ ANTIPATICO DI LUI - CASTELLITTO E’ LA MIA CONTROFIGURA. POVERACCIO, SE DEVE FA’ ‘NA PLASTICA”.  PLACIDO. UNO CHE NON SA DOPPIARE NEMMENO SE STESSO”. NANNI MORETTI? L’INSUCCESSO GLI HA DATO ALLA TESTA”. MONTESANO NON LO SOPPORTO, MASTROIANNI A CENA CON LA DENEUVE “NON TE PIACE NIENTE, PIJATELA NER CULO”.  LE DONNE? SONO SEMPRE VOGLIOSO. NON PRENDO FARMACI. STEFANIA SANDRELLI? LA PIÙ SUBLIME  - VIDEO


     
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    Giancarlo Dotto per Diva e Donna

     

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    Flavio Bucci è un uomo, al confine dei settant’anni, che se ne frega di quello che è stato ieri o che sarà domani e se ci sarà un domani. Gli basta poco. Dategli un pacchetto di sigarette e l’occasione di fare il suo mestiere.  Non ha altro da chiedere. E nemmeno questo chiede. Una bella faccia, anche un po’ sinistra, di uno che ne ha di vite e di storie da raccontare, a cominciare dalla sua. Attore dal talento smisurato, disperso e spesso voluttuosamente sprecato, senza un vero perché, in quarant’anni di cinema, teatro e televisione, da Elio Petri a Paolo Sorrentino, da “La piovra” a “I promessi sposi”.

     

    Alla fine degli anni ’70 era un italiano celebre, un divo nazionalpopolare, nei panni e nella pelle di Ligabue, il pittore lunatico e naif, sceneggiato televisivo Rai da 20 milioni di spettatori a sera. Ha scelto di vivere distratto e smemorato a Passoscuro, contrazione di Passo Oscuro, tanto per darsi un nome adeguato al destino, paesino di pescatori a nord di Roma, fuori dai flussi turistici.

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    Agli “ergastoli domiciliari”, come dice lui . Da lì si sposta il meno possibile. Eccezione, il volo per Amsterdam, a trovare la compagna olandese e il figlio Ruben. Un fratello, Riccardo, che lo protegge con discrezione dagli ingiuriosi disagi del mondo reale.

     

    Assolutamente ipnotico è il racconto di Flavio a tavola. Sarà per  quella sua voce da caverna, sarà la tavola, sarà il vino bianco che va giù facile, a litri. “Punto, punto e virgola, punto a capo” è la sua locuzione preferita, quando si stufa e deve liquidare un argomento. Si comincia dal Capoccione.

     

    Chi è Capoccione?

    “Elio Petri. Il mio indiscusso maestro. Detto così per intuibili motivi”.

    Con Petri, la tua prima parte da protagonista, il Total di “La proprietà non è più un furto”.

    “Avevo già girato due anni prima “La classe operaia va in paradiso”, un film culto dell’epoca”.

    Gli attori di allora. Da brividi.  Gian Maria Volonté. Salvo Randone, Mariangela Melato, Mario Scaccia, Ugo Tognazzi.

     

     

    “Gian Maria e Corrado Pani sono stati i primi che ho conosciuto a Trastevere, quando arrivo a Roma. Con Volonté parlavamo sempre di politica, con Corrado solo di sesso e di donne”.

    Bell’uomo Corrado Pani, ex di Mina.

    “Aveva perso la testa per lui. Era quel tipo di figlio di puttana fascinosissimo che piaceva alle donne. Il nostro James Dean, di una simpatia rara. Non so quante macchine ha sfasciato”.

    Comunista convinto Gian Maria Volonté.

    “Il padre era un gerarca fascista. Busso alla porta di casa sua. Mi vede, neanche mi fa entrare e mi porta a fare la tessera alla vicina sezione del partito”.

    E tu l’hai fatta?

    “Dovevo mangiare”.

    Sei stato anche con Mario Monicelli ne “Il Marchese del Grillo”.

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    “Quando mi mandò il copione, gli dissi: “Maestro, io piemontese, molisano da parte di padre e pugliese da parte di madre, non posso fare il romano con Alberto Sordi. E lui: “Fa come cazzo te pare, basta che lo fai”.

     

    Enrico Montesano ha riportato di questi tempi il Marchese del Grillo a teatro.

    “Attore che non sopporto. Tu mi devi spiegare quale presunzione ti spinge a rifare un personaggio che ha fatto un grande come Sordi. Non è normale”.

    Dimmi di Alberto Sordi.

    “Impossibile averci a che fare. Un grande attore, ma un pianeta a parte. Indescrivibile”.

    Perché impossibile?

    “Non l’ho mai sopportato, ma era un grande. Come fai ad essere amico di Sordi? Avaro anche di sentimenti. Neanche Fellini gli era amico. Mi divertivo a provocarlo”.

     

    Come?

    “Lo aspettavo fuori del bar di Cinecittà. “Mi offri un caffè?” gli  chiedevo. E lui: “Ma perché me devi rovina’ la giornata?”. Mi mandava la sarta nella roulotte a rimediare tra gli avanzi dei cestini le ossa per i cani”.

    Hai incrociato tutti i più grandi della tua e precedente generazione.

    “La cosa più curiosa è che più grandi erano e meno se la tiravano. Penso a gente come Mastroianni e Tognazzi”.

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    Se ti dico che Tognazzi è stato un talento naturale assoluto?

    “Dici bene. Amava la vita. Il cibo e le donne. Se l’è goduta”.

     

    Vittima a fine corsa di depressione, come l’amico Gassman.

    “Ugo organizzava ogni anno quelle feste a Torvaianica abbinate al tennis, piene di gente famosissima. L’ultima volta non lo vedo. Salgo su, lo trovo sdraiato su un lettino. “Che scendo a fare, non conosco nessuno”.

     

    Diversissimi Gassman e Tognazzi.

    “Storie diverse. Vittorio era il teatrante della prosa. Ugo veniva dalla rivista. A me interessa solo l’essere umano. E Ugo era il più grande. Punto, punto e virgola, punto a capo”.

    Più vicino, come umano, Mastroianni a Tognazzi.

    “Cena di Capodanno. Marcello  stava con Catherine Deneuve. Arriva ogni bendidio. E lei, schizzinosa: “Je ne pas…”. Al terzo o quarto “Je ne pas”, Marcello esplode: “Non te piace niente, pijatela ner culo”.

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    Grande Marcello.

    “Se non c’era, bisognava inventarlo”.

    Nino Manfredi, l’altro grande dell’epoca.

    “Bravo. Dopo Sordi, c’è lui. Ma più antipatico di Sordi. Un borghese piccolo piccolo. Sordi era talmente surreale da diventare simpatico”.

    Hai lavorato con Pasquale Festa Campanile.

    “Un geniaccio, completamente fuori di testa. Cominciava a bere gli amari alle quattro di mattina. Faceva il cinema perché gli permetteva di scrivere romanzi. Scriveva di notte. Non dormiva mai. Tranne che sul set”.

     

    Sul set con Toni Servillo ne “Il divo”. Ti piace? .

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    “No. Lo trovo molto freddo come attore. Nel nostro mestiere tu devi arrivare col cuore allo spettatore dell’ultima fila. Che me ne frega della tecnica”.

    Vi confondono ancora tu e Castellitto?

    “E’ la mia controfigura. Poveraccio, se deve fa’ ‘na plastica”. 

    Hai doppiato John Travolta in “Grease” e tanti altri film.

    “C’incontriamo in un ristorante a Roma, Lucherini fa a Travolta: “Lui è la tua voce italiana”. E io: “E lui la mia faccia americana”.

    Hai doppiato Gerard Depardieu.

    “Quasi tutti, tranne uno, che l’ha doppiato Michele Placido. Uno che non sa doppiare nemmeno se stesso”.

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    Hai prodotto Nanni Moretti in “Ecce bombo”.

    “Dio mi perdoni. Un altro borghese piccolo piccolo. L’insuccesso gli ha dato alla testa”.

    Hai mai mandato qualche regista a quel paese?

    “Alberto Lattuada. Mi aveva chiamato per “Cuore di cane”. “Ti ho fatto preparare un costumino…”. Manco fossi una ballerina del Bolshoi. M’è venuto uno sbocco di sangue. Mai più voluto vederlo, neanche in foto”.

     

    Con “Ligabue” hai conosciuto la nazionalpopolarità, quella vera.  

    “Per carattere, non me n’è mai fregato nulla. La gratificazione, se viene, la vivo come un diritto. Fa parte della paga. Non mi monto la testa per queste cose”.

    Premi e osanna per la tua interpretazione.

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    “Ho studiato due documentari su Ligabue e mi sono fidato del mio istinto. Questo è quanto. Me ne sbatto di scuole e maestri. L’unico genio che ho conosciuto nella finzione del gioco si chiama Cesare Zavattini”. 

    Uomo e attore di una generazione che non ha avuto paura degli eccessi.

    “Ho avuto il mio periodo. Alcol e cocaina insieme. Tiravo cinque grammi al giorno e ci mettevo sopra una bottiglia di vodka. Ne ho fatte di tutte. Fumo da sempre. Prima o poi la faccenda si conclude”.

    Niente approdo senile al salutismo o alla fede?

    “No. Resto un materialista inguaribile. Tutto è opinabile. Si muore a diciotto anni, si nasce morti. Mi rompe i coglioni morire, ma non mi lamento, ho avuto tutto dalla vita”.

     

    Sei stato sposato con la principessa Micaela Pignatelli, anche lei una storia d’attrice.

    “Quando arrivava la pasta a tavola e facevo la scarpetta col sugo, la suocera inorridiva: Ma come, due carboidrati? Non poteva funzionare”.

    La compagna olandese?

    “Tutta un’altra storia. Viviamo separati, ma ne sono ancora innamorato dopo vent’anni”.

    I figli?

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    “Ne ho tre. I primi due non li vedo da una vita. M’incuriosisce che, dei tre, nessuno abbia seguito le orme del padre. Non me ne frega niente, ma lo trovo singolare”.

     

    Ti assolvi come padre?

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    “Non mi sento un padre che si è comportato bene. Ho tante colpe. Sono stato egoista. Ma sono stato in giro per cinquant’anni. Ancora adesso, che mi sono fermato, ogni tanto mi chiedo dove sto”.

    Le ricordi tutte le donne che hai avuto?

    “Alcune le ho dimenticate. Anche volutamente”.

     

    Bucci e le donne oggi.  

    “Ancora mi piacciono molto. Sono sempre voglioso. Non prendo farmaci. Se ce la faccio da solo, bene. Mi piace proprio la presenza femminile. E’ l’altra parte di noi. Una cena di solo uomini mi rompe”.

     

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    Indimenticabile?

    “La storia con Stefania Sandrelli. Una donna magica. La più sublime che abbia mai incontrata. Sessualmente e come essere umano”.

    La tessera del partito comunista l’hai stracciata?

    “Mai stracciata. Non so più dove sia.  La tessera, ma anche il partito…”.

    Cosa ti fa stare bene oggi?

    “Una sola cosa, il lavoro. Cinema, teatro, qualunque cosa. Del resto non me ne frega niente. Punto, punto e virgola, punto a capo”.

     

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