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di Kollodi per Dagospia
Se il misconoscimento di Bebè Bernabè: "del passaggio di mano Telco non sapevo nulla" fosse stato pronunciato in aula giudiziaria il presidente di Telecom avrebbe rischiato almeno una incriminazione per reticenza (o falso).
Davanti alla commissione senatoriale dell'Industria e dei Lavori pubblici, l'altro giorno l'ex enfant prodige di Fiat e Eni ha calpestato, cinicamente, in una sede istituzionale, innanzitutto la sua immagine di manager pulito e onesto, poi la verità .
Forse Franco Bernabè non considera il Parlamento italiano il luogo idoneo per confessare quanto, invece, si può fare nei meeting occulti del Club Bilderberg.
Tra virtù sempre ostentate e l'esercizio di malafede ostentato, ahimè, a Palazzo Madama, il numero uno di Telecom Italia sembra dare ragione a quanti hanno sempre diffidato della sua pseudo umiltà e, soprattutto, delle sue capacità di guidare un'azienda del peso dell'ex monopolista pubblico della telefonia.
E' la seconda volta che il non-so-che Bebè Bernabei è strappato "a forza" dalla sua poltrona. Il primo a sbatterlo fuori nel 1999 fu Roberto Colaninno, che, con il sostegno di Massimo D'Alema, aveva lanciato un'Opa sul gruppo pubblico appena infaustamente privatizzato.
Nel 2007 il suo ritorno avviene, come scrive Edoardo Segantini sul Corriere della Sera, "nonostante le disarmonie con gli azionisti". E fu soltanto alle sollecitazioni amichevoli di un ex senatore a vita oggi scomparso (Cossiga), se l'allora presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi, resuscitò il Lazzaro-Bernabè di cui non aveva la massima stima (e fiducia).
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