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Daniele Martini per “Il Fatto Quotidiano”
Se per ipotesi remota qualcuno non avesse ancora capito in che condizioni versa l’Alitalia “patriottica” e se quel qualcuno si fosse pure interrogato sull'opportunità di un’alleanza con gli arabi di Etihad, eccolo accontentato. La singolare vicenda dell’approvazione del progetto di bilancio 2013 della compagnia italiana da parte del consiglio di amministrazione senza che nessuno, amministratore, presidente, consigliere, socio o comunicatore dell'azienda, se la sia sentita di fornire la cifra ufficiale del consuntivo, la dice lunga di come stanno andando davvero le cose.
CON UNA procedura inedita, al termine del consiglio è stato diffuso un comunicato in cui il banale e fondamentale numeretto del risultato (l'improbabile utile o il certo passivo) è stato semplicemente omesso. Forse in omaggio alla regola che quando le notizie non sono buone, meglio nasconderle. Oppure meglio parlar d'altro fornendo, per esempio, informazioni fondamentali come il menu a base di pennette tricolori per i frequentatori di Freccia Alata pensando alla Nazionale di calcio (comunicato Alitalia di ieri). Tutto regolare nella forma, perché Alitalia non è quotata in Borsa e non ha l’obbligo di fornire tempestivamente i dati di bilancio (anche se molti soci, a cominciare dalle banche, sono quotati). Ma spesso ad un'azienda il silenzio fa più danni della loquacità.
Considerando, oltretutto, che l'Alitalia non è un bunker inespugnabile, con la conseguenza che il dato così gelosamente nascosto è un segreto di Pulcinella perché tutti sanno che la compagnia arranca e la perdita accumulata nel 2013 secondo le indiscrezioni tocca il vertice di 560 milioni di euro. Che sarebbe il rosso più acceso della storia non proprio brillante dell'azienda di Fiumicino. Compresa la lunga stagione dell’Alitalia statale quando clientele, sperperi e ruberie di ogni tipo erano le prerogative della ditta.
IN UN PO’ MENO di sei anni i “patrioti” mandati allo sbaraglio nell'autunno del 2008 da Silvio Berlusconi e Corrado Passera, hanno saputo far di peggio arrivando a far rimpiangere la compagnia dei tempi allegri delle partecipazioni statali. La nuova compagine privata non ha saputo neanche fare tesoro dei tanti bei regali del governo: il privilegio di ripartire alleggerita di molti debiti e pesi del passato accantonati in una bad company, la concessione di un taglio di 7 mila dipendenti il cui doveroso sostentamento è stato scaricato sulla collettività e infine avendo avuto come soprammercato il monopolio su quella che allora sembrava la gallina dalle uova d'oro, la tratta Roma-Milano. Nonostante tutte queste spinte i patrioti hanno perso 1 miliardo e mezzo di euro in 5 anni, 25 milioni al mese, 5 in più della media dell'Alitalia statale.
LA PERDITA del 2013 è anche la conseguenza di accantonamenti e svalutazioni “in preparazione di future strategie” per un valore di 233 milioni di euro. Questo è l'unico dato fornito dalla società. Ma anche considerata questa circostanza, l'andamento della gestione rimane pessimo. Per una stramba coincidenza i 560 milioni di passivo di cui si parla equivalgono proprio alla cifra che gli arabi hanno promesso di puntare sulla compagnia italiana in cambio del 49 per cento del capitale. Questa parità significa due cose. La prima è che senza l’intervento arabo l'azienda italiana fallisce in cinque minuti.
E questo stato di necessità quasi azzera lo spazio di trattativa dei patrioti nei confronti di Etihad, ma preoccupa anche i sindacati, messi a brutto muso davanti alla pretesa di far uscire in un modo o nell'altro 2.251 persone. La seconda conseguenza è che se gli arabi non si affrettano a cambiare radicalmente la strategia della compagnia italiana anche i loro 560 milioni rischiano nel giro di pochi mesi di perdersi tra le nuvole.
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