DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Federico Rampini per “la Repubblica”
Sarà la vecchia Europa a mettere seriamente in difficoltà i Padroni della Rete? Le offensive più temibili contro i nuovi monopolisti dell’economia digitale arrivano dal Vecchio continente. Anche perché l’Europa non ha campioni nazionali da difendere in questo settore, e quindi i suoi governi e le sue istituzioni federali sono più sensibili agli interessi del consumatore.
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Il Wall Street Journal dà voce alle preoccupazioni della Silicon Valley, con un titolo in prima pagina: «L’Europa prende di mira le aziende digitali americane». I terreni di questa offensiva sono molteplici, si va dalle accuse di elusione fiscale alle iniziative per la tutela della privacy (“diritto all’oblìo”) per finire con le procedure antitrust. Su quest’ultimo terreno l’Europa ha dei precedenti illustri. Fu la Commissione Ue ad assestare un colpo al semi-monopolio di Microsoft quando il responsabile della concorrenza era Mario Monti. Anche a quell’epoca, gli americani videro in quell’offensiva una sorta di complotto anti-Usa: sta di fatto che l’Antitrust di Washington era stato fin troppo timido nei confronti del colosso di Bill Gates.
Oggi una procedura analoga dell’Antitrust europea potrebbe colpire il potere semimonopolistico di Google e forse smantellarlo: se passasse il principio della “neutralità delle piattaforme”, caro soprattutto alla Francia, Google sarebbe costretta a facilitare l’uso di motori di ricerca diversi dal suo. In generale quello che il Wall Street Journal mette in risalto è una convergenza di iniziative tra i due maggiori Stati membri dell’Unione, Germania e Francia, insieme con le azioni promosse dall’Europarlamento: quest’ultimo ha preso in esame una risoluzione che “scioglierebbe” i motori di ricerca dagli altri servizi offerti dai padroni della Rete (o come vengono chiamati a Parigi “les Gafas”, plurale dell’acronimo che sta per Google Apple Facebook Amazon).
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La questione dell’elusione fiscale è emblematica delle differenze tra Usa e Ue. In realtà fu il Congresso di Washington ad aprire per primo una indagine sul comportamento fiscale di questi colossi. Memorabile fu l’audizione di Tim Cook, chief executive di Apple, nel corso della quale i parlamentari divulgarono dati scandalosi: l’azienda fondata da Steve Jobs sfrutta ogni possibile cavillo delle legislazioni fiscali per spostare i suoi profitti da un paese all’altro. Alla fine la massima parte dei profitti viene fatta “figurare”, in modo del tutto artificioso, a capo delle filiali irlandesi, con fisco più generoso.
La pressione fiscale effettiva che Apple subisce sui propri profitti è dello 0,2% secondo le conclusioni di quell’indagine parlamentare. Le sedute del Congresso Usa ebbero grande pubblicità e risonanza. Poi però non se ne fece nulla. Perché? I Padroni della Rete qui a casa loro sono quasi inattaccabili. La destra, che ha la maggioranza al Congresso, è per principio contraria ad ogni aumento di pressione fiscale sulle imprese. I democratici a loro volta sono i beneficiari delle generose donazioni elettorali della Silicon Valley, da sempre “liberal” e progressista su temi come l’ambiente e i matrimoni gay.
Ecco perché alla fine è più probabile che la lotta all’elusione fiscale dei monopolisti digitali faccia qualche passo avanti nella Ue, dove il loro potere di condizionamento è meno forte. Se ne sono resi conto i vertici di Google: il presidente Eric Schmidt e il chief executive Larry Page di recente hanno moltiplicato i loro viaggi “diplomatici” a Bruxelles, Berlino e Parigi, per intensificare un attività di lobbying fin qui non abbastanza efficace.
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