DAGOREPORT - COSA VOGLIONO FARE I CENTRISTI CHE SI SONO RIUNITI A MILANO E ORVIETO: UNA NUOVA…
Francesco Guerrera per “la Stampa”
Ci avevano detto che sarebbe andato tutto bene. Che il crollo del prezzo del petrolio sarebbe stato una manna per nazioni e continenti che importano greggio, quali l’Europa, la Cina e il Giappone. Che società petrolifere, governi e speculatori avrebbero perso soldi ma noi, i consumatori ce la saremmo passata meglio al volante, al supermercato e alla banca.
prostitute arrivano dove si trova il petrolio
Stiamo ancora aspettando. Il prezzo del petrolio si è praticamente dimezzato negli ultimi sei mesi ma il fantomatico «effetto-benessere» è ancora intrappolato nella pompa di benzina.
Quelli che dovevano perdere hanno perso: società come la Bp hanno drasticamente ridotto nuovi progetti, Paesi produttori come la Russia stanno soffrendo e una marea di investitori ci ha rimesso miliardi di dollari.
Ma quelli che dovevano vincere non hanno ancora vinto. Anzi: gli stessi economisti che pochi mesi fa promettevano un aumento nella crescita economica grazie all’energia a basso prezzo ora si preoccupano delle pressioni deflazionistiche create proprio dall’energia a basso prezzo. (Sto parlando di te, Fondo Monetario Internazionale).
Hanno ragione a essere preoccupati. A ottobre, quando il petrolio costava quasi 100 dollari al barile, l’Fmi pensava che la zona-euro sarebbe cresciuta dell’ 1,4% nel 2015. A gennaio, quando il greggio andava via per circa 55 dollari al barile - è risalito un po’ da allora - la previsione di crescita è calata dell’ 1,2%. In Brasile, che ha tante materie prime ma non moltissimo petrolio, i numeri sono ancora peggio, dal 1,4% a ottobre allo 0,3% un mese fa. E persino in Cina - la grande locomotiva che esporta di tutto e di più ma deve comprare l’energia - siamo passati da circa il 7% a circa il 6%.
Che cosa è successo? E’ possibile che un boom economico che sembrava così ovvio possa scomparire senza lasciare tracce o è solo una questione di tempo? Sono domande importanti che possono fare la differenza tra crescita e recessione, tra surplus e deficit e tra utili e perdite per milioni di persone, aziende e governi.
La riposta, come spesso in economia, è: «dipende». Il drammatico calo nel prezzo del petrolio potrebbe essere l’inizio di due reazioni a catena con risultati completamente diversi. Gli ottimisti si ricordano del 1985-1986. All’epoca, il calo di circa il 60% nel greggio diede impeto a un’espansione economica favolosa. Il Pil mondiale crebbe del 4% all’anno, in media, per cinque anni - un livello che in questo momento possiamo solo sognare.
Ma erano tempi diversi e non è detto che governi e consumatori si comportino nella stessa maniera nel 2015. I governi, per il momento, sembrano intenti a guadagnare il più possibile. Invece di far sì che il calo del petrolio sul mercato si riflettesse nei prezzi della benzina per i consumatori, Cina, Brasile e Indonesia hanno alzato le tasse o ridotto i sussidi sull’energia. I risultati sono clamorosi. In Brasile, per esempio, la settimana scorsa la benzina costava quasi il 7% in più della settimana prima. E in Cina le tasse sul carburante sono aumentate di più del 50% da novembre.
L’Europa non può scagliare la prima pietra. I governi del Vecchio Continente non hanno toccato le tasse sulla benzina ma solo perché sono talmente alte che i consumatori non riescono quasi a vedere i benefici del calo del greggio.
In America, dove le imposte sono molto più basse, fare il pieno al pickup costa quasi il 40% in meno oggi paragonato a sei mesi fa. Ma per francesi, italiani e spagnoli in media lo sconto è solo del 25%.
I governi preferiscono tenersi gran parte dei risparmi del petrolio invece di distribuirli alla popolazione: è una scelta politica legittima ma che non aiuta l’economia.
I consumatori ci mettono del loro. Vista la scarsa crescita, i problemi strutturali e il clima cupo in blocchi economici importanti quali la zona-euro, il Brasile e il Giappone, non è una sorpresa che la gente conservi i pochi risparmi del petrolio invece di spenderli.
Persino negli Stati Uniti - un Paese che ha una lunga storia d’amore con le carte di credito - i dollari risparmiati alla pompa di benzina rimangono nei portafogli. In teoria, gli americani hanno 60 dollari in più al mese grazie al calo del greggio. Ma quando Visa - il gigante delle carte di credito - ha chiesto a 4500 persone che cosa ne facessero, la maggioranza ha detto che la metà viene messo in banca. Il resto va o a ripagare i debiti della crisi finanziaria o in piccole spese come gli alimentari. Niente televisioni, niente macchine e, certamente, niente case.
La psicologia dei consumatori è labile ed è possibile che possa cambiare. Un nuovo prodotto della Apple, un ulteriore calo nei tassi d’interesse o magari il cambio di stagione dal rigido inverno alla primavera potrebbe persuadere gli americani e i francesi, i giapponesi e i brasiliani ad essere meno parsimoniosi.
E’ possibile ma non probabile, soprattutto se il calo del prezzo del petrolio viene dato per scontato e fa meno notizia nella psiche collettiva dei consumatori. E c’è sempre la possibilità che il greggio continui a risalire, come è successo nelle ultime settimane, o quantomeno a non calare più di tanto.
«L’economia è molto utile per dare lavoro agli economisti», disse una volta John Kenneth Galbraith, una salutare ammonizione per chi confonde le previsioni con la realtà. Ma in questo momento di estrema fragilità per l’economia del pianeta, bisogna guardare in faccia la realtà e sperare che i benefici dell’energia a poco prezzo incomincino a uscire dalla pompa di benzina.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter:@guerreraf72.
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