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DAGOREPORT - GIORGIA MELONI SOGNA IL FILOTTO ELETTORALE PORTANDO IL PAESE A ELEZIONI ANTICIPATE?…
Marco Palombi per "il Fatto Quotidiano"
Per i renziani della prima e dell'ultima ora il suo obiettivo è chiaro: "Vuole fare il leader della minoranza interna", dicono in coro - ad esempio - Angelo Rughetti e Debora Serracchiani. Non si sa se pensare che l'atteggiamento di indifferenza in privato e le mezze difese pubbliche degli esponenti politici che dovrebbero guidare siano da considerarsi una smentita o una conferma della cosa.
In realtà il gioco innescato dalle dimissioni di Stefano Fassina è ancora più complicato di così. Le linee di faglia sono tre: quella più ovvia è la tenuta del governo; poi ci sono le tensioni interne all'area d'appartenenza dell'ex viceministro (quella - per i distratti - che sosteneva Gianni Cuperlo alle primarie); infine c'è il problema del ruolo di Fassina al Tesoro e in particolare di un paio di deleghe parecchio rilevanti che ora rimangono scoperte. Partiamo da quest'ultima.
Una delle voci più ricorrenti nella litigiosa comunità ex Ds, infatti, è che parecchio del malumore che si registra nei confronti del dimissionario tra i suoi stessi sodali ("la permalosità non è una categoria politica" di Matteo Orfini, ad esempio, o il meno polemico Flavio Zanonato, secondo cui "un esponente dell'esecutivo non risponde a un segretario di partito, ma al Parlamento e al presidente del Consiglio. E quindi sarebbe stata più auspicabile una discussione") abbia una spiegazione, per così dire, più terragna: sarebbe cioè dovuta al fatto che Fassina ha riconsegnato nelle mani di Fabrizio Saccomanni, tra le altre, le deleghe sulle società partecipate, su Cassa depositi e prestiti e sul Cipe.
Tradotto: i rinnovi nel 2014 dei vertici di Eni, Enel, Terna e altre aziende partecipate qui e là ; le privatizzazioni (anche immobiliari) e gli investimenti industriali e nella banda larga; i soldi per le infrastrutture. Insomma quel poco di politica che ancora resta in mano ad un governo come quello di Enrico Letta e da cui la sinistra del Pd - o meglio gli ex Ds, abituati a dare le carte fino a ieri - rischiano di rimanere del tutto esclusi.
Poi, certo, c'è una questione di rapporti interni alla minoranza del Pd. Massimo D'Alema lo aveva quasi predetto quando - in camera caritatis - aveva consigliato a Gianni Cuperlo di non accettare la presidenza del partito e rimanere invece un capo-corrente: la sua ascesa, per così dire, ad un ruolo di garanzia nel Pd ha aperto la questione di chi comanda su quel 18 per cento rimediato alle primarie e quel quasi quaranta incassato al congresso degli iscritti.
Non è detto che Stefano Fassina si sia posto il problema, anzi chi lo conosce e lavora con lui esclude che ci siano tatticismi di questo tipo dietro quello che l'ex viceministro considera una questione politica di primo piano, anzi decisiva: qual è, in sostanza, il rapporto fra il nuovo Partito democratico di Matteo Renzi e il governo in carica. Detto questo, quando si dice - come ha fatto il nostro - che "lavorerò come deputato e dentro il partito: la sinistra ha bisogno di un lavoro profondo di ricostruzione culturale e politica", il sospetto che ci si voglia mettere alla guida del processo è sensato. La divisione in tribù della zona non è delle più facili.
L'ala bersaniana, a cui Fassina appartiene, ha appoggiato Cuperlo solo dopo un lungo travaglio interno e l'infruttuosa ricerca di altri candidati, mentre gli ex giovani turchi - diciamo i dalemiani se l'espressione non contempla l'adesione di Massimo D'Alema - avevano puntato per tempo sull'attuale presidente Pd per occupare lo spazio anti-Renzi. Un primo incontro/scontro tra le due minoranze della minoranza avverrà nei prossimi giorni: devono decidere che posizione adottare nella direzione del 16 gennaio. In sostanza: si difende il governo o si lascia fare a Renzi?
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